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Il problema Kosovo in alcuni quotidiani italiani

“Poi realizzo il significato che viene dato alla parola. E’ solo speranza: io sono qualcuno che viene ‘da fuori’ a vedere, per poi ritornare ‘fuori’ e riportare, raccontare…”. La mia ricerca nasce da un articolo, sotto forma di diario, scritto da Giulia Fossà per il Manifesto durante un breve viaggio a Pristina. Le sue parole risalgono a quasi cinque anni fa, due prima della guerra in Kosovo, in tempi in cui pochi parlavano e scrivevano di questa regione. La questione balcanica era stata archiviata all’indomani degli accordi di Dayton. Solo più tardi, con lo scoppio delle ostilità, i commentatori ricorderanno che la scintilla delle guerre nella ex-Jugoslavia si era propagata proprio dal Kosovo nel ’90 e che in questa Regione dovrà spegnersi. I reportages, la cronaca dalle zone “calde” di guerra hanno questa grande occasione ma, voglio aggiungere, pericolo, perché per i giornali la “guerra è sia il migliore sia il peggiore dei momenti”: da una parte il racconto sincero di un dramma autentico, dall’altra il rischio di cadere nelle reti della manipolazione e della propaganda, se non della menzogna vera e propria. L’aveva scritto già Clausewitz nell’’800 che “le informazioni che si ottengono in guerra sono in gran parte contraddittorie, la maggior parte menzognere, e quasi tutte incerte…Generalmente ciascuno è disposto a credere più il male che il bene, ciascuno è tentato di esagerare un poco il male”. E poco sembra essere cambiato dopo oltre un secolo di storia, anzi oggi documentare i conflitti diventa più difficile visto che le nuove guerre sono “invisibili” ed i vertici politico-militari tentano in ogni modo di attenuare morti e distruzioni, parlando di “danni ed errori collaterali” e dei bombardamenti come di “operazioni”.
Dalla guerra del Golfo in poi tutto è cambiato: quella fu una “guerra che non ci lasciarono vedere” –ha scritto il maggior reporter italiano, Ettore Mo in “Sporche guerre” –“furono mesi di frustrazione, in cui contribuiva anche la Cnn che aveva assunto il monopolio dell’informazione”.
La “battaglia nei cieli” si è ripetuta in Kosovo, dal 24 marzo al 9 giugno, e nel momento in cui stiamo scrivendo in Afganistan, dove la definizione di “guerra umanitaria” è stata soppiantata da quella di “guerra al terrorismo”. Se è ancora difficile esprimere una valutazione sul conflitto in corso, si possono invece proporre spunti e riflessioni su quello scoppiato così vicino al nostro paese. Proprio questa vicinanza, insieme alla lezione del Golfo ed al desiderio di sapere dell’opinione pubblica, hanno reso la copertura informativa diversa rispetto al ’91.
Alla luce delle responsabilità dei media delle quali ho scritto sopra ho voluto che il “problema” Kosovo (e non a caso ho scelto di titolare la mia tesi proprio in questo modo) fosse considerato in una prospettiva il più ampia possibile, non sottovalutando mai il ruolo, le mancanze ed e il linguaggio informativi. E’ per tale ragione che il “problema” Kosovo si intreccia spesso a quello dell’informazione, della notizia che diventa propaganda dell’una o dell’altra parte.
Tutto ciò si riflette anche nella struttura della tesi nella quale ho analizzato il conflitto in Kosovo avvalendomi di cinque quotidiani italiani, Avvenire, il Corriere della Sera, il Giornale, il Manifesto e la Repubblica che sono diventate la fonte principale per il mio lavoro, affiancati da una bibliografia che spazia dalla storia agli interrogativi sul ruolo dei media. Mi è parso il metodo migliore per poter realmente tentare di descrivere una guerra che oltre ad essere “invisibile” è stata “etica ed umanitaria”: una prima visione assoluta per i nostri media.
Da notare che si è trattato di una guerra che non è potuta essere documentata in tutti suoi fronti, visto che il Kosovo era stato dichiarato dal regime serbo off-limits per la stampa occidentale. Solo in casi eccezionali, ed “organizzati” dal governo di Belgrado, i giornalisti hanno potuto entrare nel paese.
Il livello più prettamente cronologico è stato costituito dall’inizio dei bombardamenti e dal dibattito che ha condotto agli accordi di pace, quello più tematico dai paragrafi sui profughi, la gente di Belgrado ed i cosiddetti “errori della Nato”.
Ho terminato il quarto capitolo con una sorta di appendice dove ho affiancato, giustamente, al discorso sulle immagini della guerra quello che potremmo in maniera azzardata definire “reportage fotografico”. Penso, infatti, che in un’epoca in cui le parole dei media possono determinare il fallimento di una guerra, le fotografie abbiano un ruolo fondamentale.

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I INTRODUZIONE “Poi realizzo il significato che viene dato alla parola. E’ solo speranza: io sono qualcuno che viene ‘da fuori’ a vedere, per poi ritornare ‘fuori’ e riportare, raccontare…”. La mia ricerca nasce da un articolo, sotto forma di diario, scritto da Giulia Fossà per il Manifesto durante un breve viaggio a Pristina. Le sue parole risalgono a quasi cinque anni fa, due prima della guerra in Kosovo, in tempi in cui pochi parlavano e scrivevano di questa regione. La questione balcanica era stata archiviata all’indomani degli accordi di Dayton, durante i quali il “problema” Kosovo era stato praticamente ignorato. Solo più tardi, con lo scoppio delle ostilità, i commentatori ricorderanno che la scintilla delle guerre nella ex-Jugoslavia si era propagata proprio dal Kosovo nel ’90 e che in questa Regione dovrà spegnersi. Attraverso il reportage della Fossà, letto per una tesina scritta durante il corso di Storia del giornalismo, ho conosciuto la “gente di Pristina”: già nel ’97 era chiaro come gli albanesi vivessero in un clima di sopraffazione e violenza come tante altre minoranze nel mondo, dai curdi ai tibetani. La cosa strana è che in realtà costituivano la maggioranza della loro terra, mentre gli “oppressori”, i serbi, erano in

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Parole chiave

storia del giornalismo
crisi del kosovo
guerra del kosovo
analisi dei quotidiani

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