L'intervento umanitario nel diritto internazionale
Nel decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, la comunità internazionale ha riservato una sempre maggiore attenzione alle situazioni di gravi violazioni dei diritti umani. In particolare si è proposto il problema relativo alla legittimità, nel diritto internazionale, dell'uso della forza allo scopo di rimediare a tali violazioni. Con l'entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, il divieto di ricorrere all'uso della forza è divenuto norma di diritto internazionale consuetudinario. Le uniche eccezioni a tale divieto sono rappresentate dalla legittima difesa e dal ricorso a misure coercitive autorizzate dal Consiglio di Sicurezza nell'ambito del sistema di sicurezza collettiva.
Durante la Guerra Fredda, tuttavia, si sono verificate alcune ipotesi di interventi armati unilaterali da parte di singoli Stati nel territorio di altri Stati, in cui si erano realizzate gravi violazioni dei diritti umani. Si deve ritenere, comunque, che nessuno di tali interventi sia avvenuto per ragioni umanitarie. Gli Stati, infatti, si sono sempre giustificati riferendosi alla legittima difesa e le conseguenze derivate dall'intervento sono sempre state sproporzionate rispetto al potenziale scopo umanitario.
La fine della Guerra Fredda e la conseguente effettiva assunzione, da parte del Consiglio di Sicurezza, del ruolo relativo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, hanno permesso alla comunità internazionale di ricondurre le gravi violazioni dei diritti umani all'ambito del sistema di sicurezza collettiva. I diritti umani non sono più considerati come una materia rientrante nella competenza domestica di uno Stato, ma possono costituire l'oggetto dell'attività delle Nazioni Unite.
In tale prospettiva, il Consiglio di Sicurezza ha affrontato la crisi in Iugoslavia (1992), in Somalia (1992), in Ruanda (1994) e ad Haiti (1994).
La crisi in Kosovo ha riaperto il problema relativo all'intervento umanitario unilaterale. Il Consiglio di Sicurezza, infatti, non ha autorizzato i raids aerei contro la Repubblica Federale di Iugoslavia e, dunque, l'azione della NATO deve essere qualificata come un'aggressione.
Le dichiarazioni rilasciate dal Segretario Generale della NATO Solana e il documento programmatico-strategico adottato a Washington nell'aprile del 1999 sono le spie del pericolo del superamento delle Nazioni Unite e dell'affermarsi, nelle relazioni internazionali, della legge del più forte. Quali sicurezze di imparzialità ed obiettività vi sarebbero, qualora ciascuno Stato od organizzazione internazionale si sentisse legittimata ad usare la forza per apparenti scopi umanitari? E' possibile giustificare il ricorso alla forza armata, la distruzione di infrastrutture civili, alti costi di vite umane in nome della tutela dei diritti umani? E, d'altra parte, come superare l'empasse del Consiglio di Sicurezza, derivante dall'esercizio del diritto di veto da parte dei suoi Membri permanenti? Sarà la pratica futura a chiarire se l'intervento della NATO in Kosovo ha inciso in maniera profonda nel diritto internazionale. In senso opposto depone la modalità con cui la comunità internazionale ha affrontato la crisi a Timor Est. Gli Stati hanno, infatti, ribadito la centralità del Consiglio di Sicurezza, confermando la pratica sviluppata alla fine della Guerra Fredda.
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Informazioni tesi
Autore: | Michela Arienti |
Tipo: | Tesi di Laurea |
Anno: | 1999-00 |
Università: | Università degli Studi di Milano - Bicocca |
Facoltà: | Giurisprudenza |
Corso: | Giurisprudenza |
Relatore: | Tullio Scovazzi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 229 |
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