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Origine delle etnie tutsi e hutu nel colonialismo europeo


La classe dirigente, al pari dei giovani quadri delle SS, i membri dell’akazu e i capi dell’interahamwe credono nel carattere cancerogeno della presenza tutsi, nella sua natura di pericolo mortale.
La struttura si basa su una vulgata socio razziale risalente agli inizi dell’epoca coloniale.
Alla fine del XIX secolo il colonizzatore europeo (nel caso specifico la Germania) trova nella regione dei Grandi Laghi due distinti gruppi umani. La differenziazione hutu/tutsi non è pura invenzione. Le due comunità sono consapevoli delle differenze su cui si basa il dominio della monarchia tutsi ma non esiste un divario incolmabile tra loro: hutu e tutsi parlano la stessa lingua, professano la stessa religione e sono frequenti i matrimoni misti. Ma l’antropologia razziale africanista degli europei cristallizza tale differenza rendendola etnica a partire dalla delirante teoria avanzata nel 1863 dall’inglese Speke: l’aristocrazia tutsi, formata da guerrieri pastori venuti dall’Abissinia avrebbe imposto il suo dominio sui negri Bantù condannati a fare da servi. La tesi dei due popoli e lanciata e i belgi che hanno ereditato la colonia nel 1924 la legittimano ulteriormente consacrando il potere feudale tutsi per la necessità della loro amministrazione indiretta. Negli anni 30 i belgi registrano la popolazione per etnia alo scopo di limitare più rigorosamente ai soli tutsi l’accesso all’istruzione  e al pubblico impiego. Il risultato è la creazione di carte d’identità con la menzione dell’etnia, eredità destinata ad aver un gran peso in futuro per quel 15% di persone dichiarate tutsi. Da questo momento la separazione essenziali sta è interiorizzata dalle due comunità, soprattutto dagli hutu. Il termine hutu diventa sinonimo di etnicamente e socialmente inferiore e per giunta una tutsificazione fallita provoca risentimento.

Tratto da IL SECOLO DEI GENOCIDI di Filippo Amelotti
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