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Il dibattito metodologico


Il primo era un dibattito metodologico sulle modalità di comprensione dei fenomeni culturali, intesi come l’intera gamma dei fenomeni storici e sociali. Il movimento storicistico tedesco rivendicava la diversità qualitativa delle scienze dello spirito, sostenendo che in queste ultime non potessero esistere leggi universali analoghe a quelle elaborate dalle scienze della natura. Al metodo nomotetico, tipico delle scienze naturali volte alla costruzione di leggi generali, veniva contrapposto il metodo idiografico, orientato a descrivere i fenomeni della vita storica e sociale così come si presentano nella loro individualità.
Le correnti di pensiero che facevano capo a Dilthey contrapponevano la spiegazione (causalità dei fatti naturali) alla comprensione (significato dei fenomeni storico-sociali).
Sia Georg Simmel che Max Weber si collocano interamente all’interno di questo dibattito. Entrambi assumono però una posizione originale e innovativa. Pur riconoscendo la distinzione tra scienze della natura e scienze della cultura, vedono spiegazione e comprensione non come metodi contrapposti, ma come due aspetti del medesimo processo conoscitivo.
Per Simmel le scienze, in qualunque campo operino, possono formulare delle ipotesi che valgono solo sino a prova contraria e non possono aspirare a un ideale assoluto di verità.
Max Weber sostenne posizioni analoghe: conoscenza intuitiva e conoscenza causale non sono antitetiche; al contrario la comprensione rappresenta il primo passo di un processo di imputazione causale. Le differenze tra scienze della natura e della cultura non riguardano l’oggetto e nemmeno il metodo, ma gli scopi conoscitivi del ricercatore. L’imputazione causale veniva dunque saldata con la ricerca dei significati soggettivi che muovono l’azione sociale.
Gli esseri umani sono, per Weber, esseri culturali in quanto attribuiscono un significato al proprio comportamento e le scienze della cultura non si occupano dell’intera realtà sociale, ma dell’ “agire sociale” ossia “un agire che sia riferito all’atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo”.
Weber definisce la cultura come “una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo”. Questa definizione ha un uso sia metodologico che sostantivo.
Metodologicamente indica il modo in cui le scienze della cultura possono raggiungere l’oggettività scientifica: è sulla base dei valori che lo scienziato sceglie il dato empirico. L’impulso a conoscere è generato dai nostri valori (senza connotazione morale del termine).
Questa definizione ha anche un uso sostantivo, applicandosi allo studio dell’operare concreto della cultura: agli individui in generale la realtà non si presenta come una collezione di fatti separati, ma come un contesto dotato di significato. È perché gli individui attribuiscono un significato alla realtà che possono agire, compiere a volte scelte radicali e modificare la propria esistenza. Ma perché un fatto acquisisca un significato e sia in grado di influenzare e orientare l’azione dei soggetti deve rientrare in concezioni e interpretazioni più ampie, in connessioni di senso condivise e riconosciute come buone e giuste.

Tratto da SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI di Manuela Floris
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