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Psicomotricità: una breve storia


Alla fine del 19 secolo il medico francese Philippe Tissié tratta una caso di inabilità mentale attraverso una nuova disciplina chiamata ginnastica medica. Il malato è un giovane con idee ossessive, collerico e rifiutante la compagnia, che però cammina molto. Il medico lo sottopone all’esecuzione di esercizi elementari di coordinazione, flessione, equilibrio; ad intervalli regolari lo costringe a docce fredde. I progressi sono rapidi: non ha più paura e la possessione deambulatoria è rara. Tissié elaborò questa terapia partendo dalla visione dell’uomo come riserva di forza e di energia. Nello stato normale la forza è distribuita in modo equo, mentre sotto impulso l’energia si utilizza in una sola direzione. La volontà costituita con la ginnastica medica è per Tissié l’agente curativo perché mette ordine nell’orientamento dell’energia.
Nei primi decenni del 1900 l’ospizio parigino della Salpetriere era diretto da Jean – Martin Charcot, uno dei padri della moderna psichiatria. Egli usava l’ipnosi per studiare i sintomi e teorizzò la complicità tra il movimento e la sua rappresentazione (faceva percepire al malato un movimento tramite tutti i sensi e ad occhi chiusi per poi chiedere di riprodurre il gesto con l’arto simmetrico sano. L’intenzione era quella di ottenere con la ripetizione dei miglioramenti).
Un secolo dopo Bernard Aucouturier tratterà la produzione aggressiva esteriorizzata a partire dall’accettazione dell’aggressività nei bambini, inserendola in uno spazio ludico organizzato, usando il corpo, i gesti e la voce come legge, per promuovere una gestualità simbolica.
Nel 1961 la psicomotricità viene riconosciuta, in Francia, con un diploma e viene inserita nelle ‘scuole speciali’.
Tra gli anni 60 e gli 80 la psicomotricità mette in discussione la convinzione di poter modificare la psiche attraverso dei semplici esercizi per privilegiare ciò che si gioca tra il bambino e l’adulto. Dall’esercizio l’attenzione si sposta al processo, e il concetto di anormalità sfuma per lasciare il posto a quello di bambino che soffre.

Il termine psicomotricità comprare in Italia negli anni ‘60 per  designare un campo di intervento rivolto principalmente alla crescita e all’apprendimento del bambino dalla nascita fino agli 8 anni d’età (inizio dell’età scolastica). Nonostante le resistenze, si vengono a creare nuove sensibilità e atteggiamenti nella coscienza degli educatori diventando una condizione indispensabili per chiunque si trovi oggi a dover operare a libello non verbale nei vari ambiti educativi.
La psicomotricità è una esperienza naturale, la forma originale del bambino di stare al mondo, di rappresentarlo e di conoscerlo. Nei primi anni di vita il bambino vive la globalità dell’essere, che egli sostiene quasi esclusivamente attraverso il piacere del movimento. Il bambino è un corpo: un corpo che sente e conosce sperimentandosi all’interno di polarità e contrasti rintracciabili in ogni gioco che mette in scena.
Con la psicomotricità si inaugura una nuova attenzione alla crescita e allo sviluppo del bambino all’insegna del corpo vissuto, è una enfatizzazione educativa dell’empatia materna, del dialogo corporeo pre-verbale, si definisce per la sua non–direttività e il suo non–giudizio; ci si concentra su ciò che il bambino sa fare piuttosto che su ciò in cui è carente. Il bambino trova nell’educatore psicomotorio un partner simbolico in grado di restituirgli la sua immagine mentre gioca, rispondendo in modo asimmetrico, analogico e metaforico. La psicomotricità a livello globale costringe ad una nuova interpretazione del processo di formazione.
La funzione dell’osservazione e dell’ascolto è quella di entrare in contatto con il mondo del bambino in modo da orientare efficacemente la formazione.
La psicomotricità necessita una formazione precisa dell’adulto ed esige una messa in discussione dei modelli educativi. Il setting psicomotorio chiede all’educatore di operare a livello del corpo affinché il bambino possa percorrere tutte le tappe che dal piacere-dispiacere senso motorio iniziale conducono all’autonomia propria del pensiero operatorio di Piaget.

Tratto da PEDAGOGIA DEL CORPO di Adriana Morganti
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