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Malattia e presa di coscienza di sè


La malattia, anche se di breve durata, comporta dei cambiamenti e ogni cambiamento del proprio stato porta a riflettere su di sé: dunque la malattia è un’esperienza educativa.  
La riflessione può consistere semplicemente in una presa di coscienza che in quel momento non si è più come prima.
Per tutto il periodo della malattia l’immagine di sé cambia.
L’immagine di sé è legata a ciò che gli altri pensano di noi. I bambini dipendono totalmente dall’approvazione o dal rifiuto degli altri e si vivono come buoni o cattivi in funzione di ciò che gli altri pensano. Ciò comporta una grossa responsabilità educativa degli adulti che entrano in rapporto con bambini malati o ospedalizzati.
È compito dell’équipe ospedaliera aiutare il bambino malato a mantenere una buona immagine di sé e questo può essere fatto solo accettando il bambino e apprezzandolo in quanto persona unica.
L’operatore deve avere un atteggiamento di “accettazione positiva incondizionata”, deve cioè accettare che il bambino possa essere veramente se stesso con tutte le sue paure e le sue speranze nei confronti della vita e della malattia.
È bene che l’operatore, di fronte ad ogni nuovo arrivato, si chieda se gli stia veramente simpatico o meno, se egli sia in grado si apprezzare veramente le cose che dice o fa e come le fa.
Il tipo di malattia può essere una discriminante: malattie comuni possono rendere poco interessanti i bambini e routinarie le cure, malattie più rare possono sollecitare l’interesse degli operatori.
Se l’etica impone di non discriminare fra pazienti, non si può negare che nella realtà spesso ciò avvenga. La cosa non sarebbe così problematica se non avesse dei riflessi sull’immagine che ciascun bambino ha di se stesso e che potrebbe essere influenzata in modo negativo dalle scelte degli operatori.
Il classificare i pazienti in categorie, il pensare che a particolari malattie siano associati particolari dolori, quindi il prendere in considerazione solo i lamenti compatibili con la particolare malattia diagnosticata, classificando come “vizi” tutte le altre richieste, fa parte della vita di ogni operatore, anche pediatrico.
Gli operatori, come tutti, hanno poi delle preferenze in campo estetico, di ceto sociale e così via. Tali preferenze agiscono fortemente nel rapporto con i bambini e con i loro genitori. Spesso di fronte a malatini che assommano tutte le caratteristiche giudicate positivamente, gli operatori sono particolarmente in difficoltà, sono più dispiaciuti di quanto avvenga per coloro che non hanno le caratteristiche ideali. Lo stesso può dirsi per i genitori che vengono giudicati sulla base di ciò che gli operatori pensano sia il modo corretto di entrare in rapporto e di educare i bambini.
Il problema dei pregiudizi sta nel fatto che questi non tengono conto di come l’altro è effettivamente: sono modalità di pensiero con cui gli altri vengono incasellati senza offrire loro la possibilità di rivelare se stessi.
Il bambino malato ha bisogno di avere accanto a sé professionisti capaci di gestire correttamente una relazione d’aiuto, che non lo facciano sentire giudicato né male né bene, ma soltanto apprezzato per quello che è.
Il professionista deve adattarsi all’ammalato e non viceversa. L’ascolto attento e senza prevenzioni di ciò che i bambini chiedono sta dunque alla base di una buona riuscita del lavoro terapeutico.
La persona va studiata, compresa e accettata in quanto persona tutta intera, sia per le parti sane che per quelle malate, sia per gli aspetti di debolezza che per quelli di forza.

Tratto da LA PAURA DEL LUPO CATTIVO di Anna Bosetti
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