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Operatori sociali e rafforzamento del potere delle donne tra i rifugiati cambogiani


Gli operatori sociali, che avevano spesso a che fare con casi di violenza domestica, ritenevano che il loro ruolo fosse informare i cambogiani dell’illegalità dei comportamenti violenti verso le mogli, e di mostrare loro il giusto modo di educare i figli e gli specifici bisogni e diritti di cui donne e bambini, in particolare, erano portatori in quanto individui.
A partire dagli anni Settanta, specialmente in California, l’attivismo femminista aveva incontrato molteplici organismi di servizio pubblico implicati nell’assistenza alle donne e alle famiglie. Le femministe avevano portato avanti le proprie lotte, concentrandosi prima sull’aborto e poi sullo stupro e sulla violenza domestica.
Le attiviste fondarono organizzazioni femministe che cercavano di contrastare l’immagine delle donne immigrate povere come mogli passive, e contribuirono a rafforzarne il potere mettendo a disposizione una struttura alternativa che le aiutasse a vincere l’oppressione domestica maschile.
Le femministe che si battevano per gli immigrati insistevano soprattutto sull’importanza di insegnare ai propri utenti, specialmente alle donne, a spezzare la loro “dipendenza acquisita” resistendo all’oppressione maschile e, se necessario, anche dividendo la famiglia.
Per i cambogiani cresciuti nel loro paese era inconsueto parlare dei propri problemi in pubblico. Erano tutte famiglie con serie difficoltà e, richiedendo l’aiuto del gruppo, partecipavano a un’altra forma di compassione imposta, che aveva un prezzo: l’auto-esposizione e la soggettivazione.

Tratto da DA RIFUGIATI A CITTADINI di Anna Bosetti
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