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Storia del DSM


Alcuni problemi importanti della diagnosi psicologica sono costituiti dalla comorbilità, la stabilità temporale dei quadri diagnostici, la doppia diagnosi, l'attendibilità delle valutazioni.
Per meglio comprendere tali aspetti, è opportuno tratteggiare l'impostazione concettuale che contraddistingue l'approccio psichiatrico alla diagnosi da cui discende il DSM.
Le prime 2 versioni del DSM erano molto influenzate dalle concezioni psicoanalitiche, allora egemoni nella psichiatria statunitense. A partire dagli anni 70, si verifica invece un allontanamento dalla psichiatria psicodinamica: il DSM III è frutto di questa svolta. Esso vede convergere due orientamenti di base: 1) le impostazioni della psichiatria descrittiva classica; 2) l'orientamento empirico derivato dall'applicazione delle metodologie statistiche all'epidemiologia psichiatrica.
Secondo il modello della psichiatria descrittiva, le malattie esistono, hanno quadri clinici nettamente distinguibili l'uno dall'altro, e sono riconducibili ad un insieme di cause e di processi esclusivi e specifici per ciascuna entità diagnostica. Emerge quindi il concetto di unità morbosa che la psichiatria mutua dalla patologia medica, che indica una corrispondenza univoca tra le manifestazioni cliniche di un disturbo e i processi eziopatogenetici sottostanti.
Nel corso del tempo, tuttavia, a causa della difficoltà di indagare la natura dei processi patogenetici sottostanti le malattie mentali, si è passati al concetto di sindrome, intesa come raggruppamento di sintomi dal significato psicopatologico omogeneo, organizzati in modo gerarchico e distinguibili in sintomi primari (necessari alla formulazione della diagnosi, considerati diretta espressione del processo patogenetico che determina la condizione patologica) e secondari (riguardano la reazione dell'organismo alla presenza dello specifico processo eziopatogenetico, possono risultare trasversali a diverse sindromi).

Tratto da LA DIAGNOSI IN PSICOLOGIA CLINICA di Salvatore D'angelo
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