L'identità come prodotto dei nostri racconti
Perchè rappresentiamo noi stessi mediante il racconto, in modo tanto naturale che la stessa identità appare un prodotto dei nostri racconti? Gli studi di psicologia forniscono forse una risposta? Riassumiamo una quaterna di definizioni lampo dell'identità del Sé su base psicologica e confrontiamole con una quaterna di regole per narrare e scrivere un buon racconto.
- Il sé è teleologico, pieno di desideri, intenzioni, aspirazioni.
- Di conseguenza è sensibile agli ostacoli: risponde al successo o al fallimento, è vacillante nell'affrontare esiti incerti.
- Risponde a quelli che sono giudicati i suoi successi o fallimenti modificando le sue aspirazioni e ambizioni e cambiando i suoi gruppi di riferimento.
- Ricorre alla memoria selettiva per adattare il passato alle esigenze del presente e alle attese future.
- Un racconto vuole una trama.
- Alle trame servono ostacoli al conseguimento di un fine.
- Gli ostacoli fanno riflettere le persone.
- Esponi soltanto il passato che ha rilevanza per il racconto.
Alla luce di questo dovremmo dire che tutti quegli studi psicologici sull'identità hanno scoperto l'acqua calda e che tutto ciò che grazie ad essi abbiamo appreso è che la maggior parte delle persone ha imparato a narrare racconti passabili, con loro stessi come protagonisti? Ciò è ingiusto e chiaramente falso. Potremmo però accusare gli psicologi autori di quelle scoperte di non aver saputo distinguere, per così dire, il ballerino dalla danza. Giacché il Sé degli psicologi risulta alla fine poco più di un tipico protagonista di un tipico racconto di un genere tipico. L'identità abbisogna forse di qualcosa di più di un racconto ragionevolmente ben condotto, un racconto i cui episodi continui sono collegati tra loro. Forse ci troviamo davanti ad un altro dilemma tipo uovo e gallina.
Il nostro senso di identità è la fonte della narrativa o è l'umano talento narrativo a conferire all'identità la forma che ha assunto? Ma forse è una semplificazione eccessiva. Un vecchio adagio della linguistica suona: pensare serve a parlare. Arriviamo a pensare in un certo modo per poterci esprimere nella lingua che abbiamo imparato a usare, il che non vuole certo dire che tutto il pensiero sia formato al fine esclusivo della parola.
In sostanza la costruzione del Sé tramite la sua narrazione non conosce fine né pause, probabilmente oggi più che mai. È un processo dialettico, un atto di bilanciamento. E malgrado i sermoni che ci diciamo per rassicurarci sulle persone che non cambiano mai, queste cambiano, riequilibrano la loro autonomia e i loro impegni, quasi sempre in una forma che onora quel che erano in passato. Il decoro della creazione del sé risparmia alla maggior parte di noi quei tipi di creazione dell'io sfrenatamente avventurosi, che furono la rovina di uomini come Christopher McCandless. In fine di discorso, diciamo che il talento narrativo è insopprimibile nell'istinto umano.
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Dettagli appunto:
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Autore:
Gherardo Fabretti
[Visita la sua tesi: "Le geometrie irrequiete di Fleur Jaeggy"]
[Visita la sua tesi: "Profezie inascoltate: il "Golia" di Giuseppe Antonio Borgese"]
- Università: Università degli Studi di Catania
- Facoltà: Lettere e Filosofia
- Esame: Pedagogia generale
- Docente: Ezio Donato
- Titolo del libro: La fabbrica delle storie
- Autore del libro: Jerome Bruner
- Editore: Laterza
- Anno pubblicazione: 2006
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