Il dovere generale di buona fede precontrattuale nel c. c. vigente
Il legislatore del 1942, a coronamento dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale - sopra descritta sommariamente -, ha dettato una disciplina specifica della culpa in contrahendo agli artt. 1337 e 1338 c. c.
In particolare, l’art. 1337 c. c. estende alla fase delle trattative e della formazione del contratto quel principio di buona fede che il codice del 1865 prevedeva solo in tema di esecuzione del contratto.
A fronte di questo ampliamento disciplinare, l’art 1337 c. c. rivela chiaramente il favor del legislatore del 1942 per le clausole generali, intese quali norme dal contenuto indeterminato e, come tali, capaci di un’applicazione differenziata, secondo il contesto in cui si trovano ad operare. Se la finalità fondamentale di una tecnica legislativa che ricorre frequentemente alle clausole generali consta nell’assicurare una disciplina dei rapporti giuridici quanto più conforme a giustizia, ad essa si accompagna, tuttavia, il rischio di compromettere eccessivamente la certezza del diritto e di concedere al giudice una libertà interpretativa eccessiva. Il problema sta, quindi, nel riempire di contenuto la clausola generale, limitando, per quanto possibile, l’arbitrio del giudice.
Bisogna, innanzitutto, chiarire che la buona fede cui riferisce l’art.1337 c. c. è la buona fede in senso oggettivo, da tenere distinta dalla buona fede in senso soggettivo, consistente nello stato psicologico di chi ignora di ledere l’altrui diritto.
Quanto al significato e alla funzione della buona fede oggettiva, in dottrina si fronteggiano due orientamenti ricostruttivi. L’uno scorge nella buona fede una regola di comportamento capace di produrre obblighi in capo ai soggetti cui si riferisce - in questo caso, in capo a coloro che sono coinvolti nelle trattative contrattuali -, ulteriori rispetto a quelli previsti da specifiche norme di legge; si riconosce così alla buona fede una funzione di integrazione del rapporto intercorrente tra le parti. In questa prospettiva, si è cercato di definire e classificare gli obblighi scaturenti dalla regola di buona fede: così si sono distinti i doveri precontrattuali di buona fede in obblighi di informazione, segreto e custodia. Parallelamente, un’alternativa ricostruzione specifica il principio di buona fede nei due canoni della lealtà e della salvaguardia, evidenziando che l’esigenza espressa dalla clausola generale va ben oltre il mero “stare ai patti” e non ingannare - in cui si risolve il canone della lealtà – e, di conseguenza, impone ai soggetti impegnati nella trattativa l’obbligo di considerare e proteggere l’utilità della controparte, nei limiti in cui ciò non determini un apprezzabile sacrificio a proprio carico.
L’altra corrente dottrinale, invece, attribuisce alla buona fede il significato di criterio di valutazione del comportamento dei soggetti: non, quindi, una regola di condotta, fonte di obblighi astrattamente determinabili a priori, ma un criterio oggettivo ed elastico, che soccorre l’interprete - ed, in particolare, il giudice -, qualora sia tenuto a vagliare la giuridicità del comportamento in concreto posto in essere dalle parti. Tale criterio consentirebbe, pertanto, di evitare le conseguenze negative di un’applicazione eccessivamente formalistica del diritto, alla luce delle circostanze del caso concreto.
Le due concezioni della buona fede - probabilmente - colgono entrambe qualcosa di vero, considerando lo stesso fenomeno da punti di vista diversi: se, infatti, ex post la buona fede offre all’interprete un parametro di valutazione di un dato comportamento, ciò non toglie che ex ante sia idonea a porsi come regola di condotta preesistente al comportamento, cui lo stesso è tenuto a conformarsi.
Al di là della specifica nozione della buona fede che si preferisca adottare, in ogni caso, è opportuno evidenziare che, nell’ottica di un sistema giuridico completo ed unitario, una corretta ricostruzione del significato della clausola di buona fede deve avvenire alla luce di un’interpretazione organica e complementare rispetto al sistema di norme in cui è inserita.
Certamente sono apprezzabili i vari tentativi classificatori degli obblighi scaturenti dal dovere di buona fede; è, altresì, imprescindibile l’apporto chiarificatore delle circostanze del caso concreto cui la clausola di buona fede, data la sua struttura “aperta”, rinvia. Tuttavia, la clausola di buona fede oggettiva coesiste con norme che vi apportano deroghe e limitazioni e ne condizionano l’effettivo significato: ciò vale, in particolare, per la buona fede precontrattuale ex art. 1337 c. c., poiché, talvolta, talune situazioni astrattamente riconducibili all’ambito di applicazione dell’art 1337 c. c. non vi rientrano, dato che il codice stesso ne detta una disciplina ad hoc in altra sede.
È, ad esempio, il caso della fattispecie ex art. 1494 c. c. del potenziale alienante che, in sede di trattativa, omette di portare a conoscenza del potenziale acquirente i vizi della cosa oggetto di vendita futura: è chiaro che tale soggetto non conduce le trattative in modo corretto, ma, dopo la conclusione del contratto, ciò che rileva è unicamente l’esistenza del vizio da intendersi come esecuzione di una prestazione inesatta. Per questo motivo, appare preferibile l’orientamento dottrinale maggioritario che ricomprende il risarcimento del danno da vizi della cosa nell’alveo della responsabilità da inadempimento e non in quello della responsabilità precontrattuale.
Allo stesso tempo, anche chi conclude un contratto, pur sapendo che non potrà adempiere o senza assicurarsi di avere i mezzi per adempierlo, tiene un comportamento scorretto durante le trattative, ma, una volta concluso il contratto, egli risponderà solo di inadempimento.
Più in generale, va osservato che il principio di buona fede, cui il codice dà tanto risalto in materia di responsabilità precontrattuale, è stato considerato dal legislatore anche nella disciplina di altri istituti, quali la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo - ex art. 1447 c. c. - o in stato di bisogno - ex art. 1448 c. c. - e, particolarmente, i vizi del volere.
Entrando a far parte di questi sistemi di norme, pertanto, la regola di buona fede si è formalizzata e ha subito delle limitazioni: in questo senso, l’approfittamento dell’altrui stato di bisogno provoca la rescissione, solo se la sproporzione tra le prestazioni delle parti eccede la metà del valore che la prestazione eseguita, o promessa, dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto; allo stesso tempo, l’errore riconoscibile è causa di annullamento del contratto solo se esso sia anche essenziale.
È necessario, quindi, indagare se queste limitazioni rimangano circoscritte a tali sistemi o siano tali da riflettersi anche sul dovere generale di buona fede precontrattuale.
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Dettagli appunto:
- Autore: Luisa Agliassa
- Università: Università degli Studi di Torino
- Facoltà: Giurisprudenza
- Corso: Giurisprudenza
- Esame: Diritto Civile
- Docente: dott.ssa Ilaria Riva
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