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L'arte di Daniele Voltera a Roma

L'arte di Daniele Voltera a Roma




Daniele, fin dall’arrivo a Roma, si inserisce nell’ambiente ufficiale ed è sensibile ai mutamenti e alle suggestioni del suo tempo.
La sua prima esperienza romana si svolge a contatto con Pierin del Vaga, che aveva ereditato i commettenti e la fama di Raffaello.
La sua arte rappresentò non solo il punto di congiunzione fra l’ambiente fiorentino e il romano, portando nell’ambiente raffaellesco, già accademico e classicheggiante, una fantasia più accesa, un fare più estroso, uno stile più patetico, ma costituì l’alternativa possibile alla grandezza di Michelangelo. Perino spostò le ricerche su di una forma più piana, che sostituiva con l’eleganza la complessità delle forme michelangiolesche, delle quali non si riusciva a riprodurre se non l’apparenza.
Daniele, nonostante la sua interpretazione semplificata della forma michelangiolesca, non perse mai la lezione di Perino.
Negli affreschi di San Marcello, si avverte un maggior sentimento della forma in senso plastico, che rispecchia l’esperienza particolare che Daniela faceva sulle opere michelangiolesche.
La tendenza del pittore a un’interpretazione personale dell’arte di Michelangelo, mediante forme a blocchi scanditi e semplificati, prevalgono nelle opere romane posteriori al 1545. Ma nei primi dipinti del tempo romano, come gli Evangelisti, la Cappella Orsini e gli affreschi di Palazzo Massimo, si assiste a un processo di sfrondamento degli elementi periniani, dovuto anche allo studio del Giudizio. Ciò si avverte nella Madonna di Ulignano del 1545 e nella Deposizione di Trinità dei Monti. Nella Madonna di Ulignano l’adesione al plasticismo michelangiolesco è evidente per lo stacco della forma, scandita in blocchi volumetrici; e ciò prevale sui vagheggiamenti in panni ondeggianti, sulle morbide cadenze che ricorda il linguaggio fantasioso di Perino. Nella Deposizione si avvertono le forme periniane nelle vesti ondulate e attorte in nodi, volteggianti in un’infinità di pieghe che qui si dilatano intorno ai corpi per accrescerne il volume e non si usano più per un gioco decorativo. In esso, inoltre, vi è una meditazione sui problemi proposti da Michelangelo nel Giudizio, con un senso slargato e ingigantito dei valori volumetrici. Vi è una razionalizzazione degli spazi organizzati in modo da mettere in evidenza le forme. L’atmosfera è un po’ tetra e pesante. A Trinità dei Monti, intorno al ’48-49, nel raffigurare l’Assunzione, il pittore sfonda la calotta della cupola verso la quale si avvitano i putti che sollevano la Madonna, in modo che questa, inquadrata in un’esedra di colonne, appaia sullo sfondo del cielo, sospesa verso la luce. Qui non vi è più alcun legame con Perino. I volumi sono geometrizzati al massimo e lo spazio è misurato esattamente, costrette in architetture costruite per delimitare le forme in una dimensione cubica. Un senso dello spazio ancor più semplificato è presente nella Presentazione della Vergine al Tempio, dipinto più tardi. Gli spigoli dei gradini sono in evidenza sulla diagonale che taglia quasi a metà il dipinto e le figure si impostano con forme scandite e taglienti.
Nei suoi ultimi dipinti, l’interesse è tutto verso la scultura, come i David di Parigi, al Sacra Famiglia di Palazzo Doria a Roma, la Madonna col Bambino della Collezione d’Elci a Siena. La forma è posta in evidenza ed il linguaggio è ormai cubizzato. Il temperamento di Daniele non era volto al misticismo, come per Sebastiano.

Tratto da ARTE MODERNA di Gabriella Galbiati
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