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- APPUNTI DI ETNOMUSICOLOGIA SULLE SORGENTI DELLA MUSICA
Appunti di Etnomusicologia sulle sorgenti della musica:
Appunti di Etnomusicologia sulle sorgenti della musica (a.a. 2011/2012).
Argomenti affrontati:
• La nascita dell’etnomusicologia
• Gli strumenti
• La musica primitiva
• Melodia a picco
• La melodia zigzag
• Il non liquet
• I modelli a intervallo unico
• La magia
• i manierismi
• Yang e Yin
• Dualismo dei sessi applicato agli strumenti
• La melodia
• In cammino: crescita, personalità, arte
• L’evoluzione dei modelli per seconde e per terze
• L’evoluzione dei modelli per quarte e per quinte
• Le melodie centriche
• La polifonia
• Ritmo incorciato o poliritmia
Dettagli appunto:
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Autore:
Marianna Tesoriero
[Visita la sua tesi: "Mind Control: strategie di controllo mentale attraverso i media"]
- Università: Università degli Studi di Messina
- Facoltà: Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo
- Corso: Scienze e Tecniche della comunicazione
- Esame: Etnomusicologia
- Docente: Prof. Geraci
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Appunti di Etnomusicologia - Sorgenti della musica Appunti di Marianna Tesoriero Università degli Studi di Messina Facoltà di Scienze della Comunicazione Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione Esame di Etnomusicologia Docente: Prof. Geraci Anno Accademico 2011/2012 1. IDEE E METODI. La musica occidentale non è più come dovrebbe essere e come è stata; la vita moderna è satura fino alla nausea di musica, gli uomini più civilizzati sono diventati uditori voraci ma non ascoltano più, usando il suono articolato come una specie di droga, abbiamo dimenticato di esigere significato e valore in ciò che ascoltiamo. Nella musica primitiva, al contrario, significato e valore sono qualità della massima importanza, il canto è indispensabile in occasioni particolari, matrimoni, funerali, nascite, in ogni circostanza in cui sia necessario invocare la buona sorte contro le potenze avverse, ma non solo; il canto interviene anche nell’ambito dei lavori regolari che richiedono impulso ritmico. La musica intesa in questo senso non si compra nei negozi ma sgorga da una tradizione coerente o dal contributo personale degli indigeni; essa non è mai priva d’anima e di pensiero, mai passiva, ma sempre vitale, organica e funzionale, ed è sempre piena di dignità. Questo non si può certo dire della musica occidentale. Le melodie dell’uomo primitivo cadono oggi vittime, insieme a quelle popolari, soccombono senza speranza a un’era di autobus, aerei, auto veloci, radio e tivù. Uno degli aspetti più tragici del contatto tra aborigeni e la civiltà è la distruzione dell’arte e della cultura che tanto frequentemente ne consegue. Si uccide così la musica indigena a beneficio di qualche canzonetta occidentale banale e priva di senso, si tratta dell’annientamento irresponsabile di una parte organica e vitale della cultura il cui posto viene preso da canzoni prive di radici e significato, spesso soltanto commerciali, che riempiono il nostro mondo della loro volgarità. LA NASCITA DELL’ETNOMUSICOLOGIA: durante il medioevo e il rinascimento i pilastri della cultura europea furono la teologia e i classici dell’antichità; inevitabile al tempo era la lettura di bibbia e antichi classici, ciò faceva si che i compositori non potessero evitare un contatto almeno letterario con il mondo musicale delle scritture e dei greci, tant’è che i trattati musicali più antichi si aprivano con omaggi agli ebrei o ai greci, grande fu quindi l’influenza di queste letture, riscontrabile anche nella prima delle grandi opere di argomento storico-musicale di padre Martini, la Storia della musica in 3 volumi. I successori inglesi di Martini si concentrarono invece sulla musica egiziana, ricordiamo Burney e Hawkins. Quattro anni dopo Laborde introdusse un criterio universalistico 1780, il quale comprendeva Ebrei, egizi e Greci ma anche Cinesi, Giapponesi, Tailandesi, Arabi, Persiani, Turchi, Negri e molti altri. I tedeschi, come i primi Martini, Bucale e Co. Rimasero fedeli e limitati alle musica della Bibbbia, del classico greco e degli egizi. Con l’Histoire General de la Musique del franco-belga Francois Fetis del 1869 si ha l’impressione di cambiare registro, l’opera infatti non solo comprende capitoli sull’india, la cina e il giappone ma anche sui Calmucchi, sui Chirghisi ed altri, secondo Fetis la storia della musica è la storia dell’umanità. Si può pensare a un legame tra l’avvento dell’etnomusicologia e il Romanticismo, il quale consisteva in ogni campo artistico, siamo nel 18° secolo e vi è la tendenza d interessarsi ai generi d’arte più remoti. La svolta decisiva avvenne però intorno al 1880, la tesi dottorale di Baker sulla musica degli Indiani del Nordamerica faceva della musica primitiva un argomento accademico. Da li in poi numerosi studiosi in Germania, Inghilterra e USA iniziarono ad interessarsi maggiormente alle teorie e ai metodi musicali. Il primo fu Ellis, egli concentrò la sua attenzione sulla riforma fonetica e sillabica, raggiunse nella sua ricerca una profonda conoscenza dell’acustica e della psicologia dell’udito, giungendo così a misurarsi con il problema delle scale muscali esotiche e dei loro passaggi inconsueti. Egli si servì della matematica x escogitare un ingegnoso sistema di calcolo fondato sui cents cioè i centesimi di un semitono temperato, così, i rapporti incerti con cui fino a quel tempo si esprimeva l’intervallo tra due note, con l’aiuto dei logaritmi sono trasformati in cifre chiare, semplici da usare e da indicare graficamente.; la valutazione arbitraria degli intervalli lasciò il posto alla precisione matetica, eliminando così i risultati errati risultanti dall’effetto di autosuggestione dell’orecchio musicale. La sua conclusione fu che non esistessero scale musicali uniche o naturali o che si fondassero sulle leggi della costituzione del suono musicale di Helmholtz, ma piuttosto esistono scale molto diversificate, artificiali e soggette a variazioni capricciose; Ellis forniva così alla musicologia un fondamento matematico e uno strumento teorico di precisione. Nel frattempo Edison aveva iniziato a trasformare le vibrazioni della voce umana in curve incise nella cera che ricopriva un cilindro rotante. Il suono, con tutte le sue inflessioni e i suoi timbri individuali, si poteva ormai registrare, riprodurre e conservare. Il cammino della musica esotica incontrò quello del fonografo Edison nel 1889 quando Fewkes si servì dell’apparecchio di Edison x uno studio sui Passamaquoddy e sugli Zuni. Fewkes trasmise il materiale raccolto a Gilman ad Harvard il quale trascrisse i canti Zuni incisi sui cilindri e stampò le melodie secondo la notazione occidentale nel primo volume del “Journal of Amercan Archeology and Ethnology”. Due anni dopo Stumpf riprodusse quelle trascrizioni, così questo nuovo ramo del sapere si affermò sia in Europa, che negli USA, che nella letteratura etnologica che in quella musicologica. Da li a poco Stupì e discepoli cominciarono a persuadere gli esploratori a portare con se apparecchiature Edison, registratori x le canzoni, x riportarle in patria, trascriverle, analizzarle e conservarle nell’Archiv. Il termine etnomusicologia fu usato per la prima volta solo nel 1950, prima ci si riferiva a tale disciplina col nome di “musicologia comparata” x il suo metodo a mò di comparazione, paragone, alla ricerca di somiglianze e divergenze. Il nuovo termine vuole sottolineare la parte del composto che ha a che fare con l’etnologia, almeno x i francesi. Chi lavora in questo settore si trova a mezza via tra la musicologia e l’etnologia, l’etnomusicologo tenta di spezzare i vincoli della separazione tra le discipline e mira alla loro riunificazione a un livello più alto. L’attività dell’etnomusicologo si suddivide in due fasi: il lavoro sul campo e il lavoro a tavolino. Il primo implica la permanenza dell’esploratore in un villaggio indigeno, parlo di mesi o anni. In tali civiltà indigene su può osservare l’unità più profonda tra la musica e la vita (certi schemi melodici sono riservati a certe ore particolari del giorno); il canto è un elemento essenziale e inseparabile della vita primitiva, e non può venire isolato dalle circostanze che ne costituiscono la causa, il significato e la ragion d’essere. L’esploratore ha necessariamente bisogno dei suoi strumenti di registrazione, l’esperienza ci ha insegnato quanto poco sicuri siano i sensi umani, e quanto siano influenzati dai pregiudizi; l’udire la musica così come il produrla sono soggetti a quei condizionamenti quasi indefinibili che costituiscono la nostra acculturazione musicale; spesso poi i gradi melodici diversi da qwuelli del nostro sistema abituale pongono l’etnomusicologo di fronte a due problemi esistenziali: come misurare e come esprimere quei gradi con criteri più esatti di quelli contenuti nell’espressione “un po più, un po meno, di un tono). Per questo è necessario ricorrere all’aiuto di un mezzo meccanico. La misurazione dei suoni si può effettuare sia con tecniche acustiche che con tecniche visive. Le vecchie tecniche acustiche sono sufficienti x le esigenze meno complesse della musica primitiva, tali si fondano sul raffronto tra le note percepite con l’udito e un modello sonoro che abbia persistenza e gradazioni sufficienti a consentire le misurazioni. Tali tecniche però restano approssimative perché è comunque l’orecchio a decidere quando la nota da misurare e quella che serve da campione sono identiche tra loro; inoltre le distanze tra campione e campione sono in genere così grandi sullo strumento di misurazione che 8 volte su 10 la nota si trova nel mezzo di due campioni e la valutazione del punto di misura resta comunque all’individuo. I metodi visivi sono in definitiva i più esatti, particolarmente quelli che si basano sull’elettronica moderna, tra gli apparecchi di cui si fa più uso ricordiamo gli oscilloscopi, gli stroboscopi e il calcolatore elettronico (*). Un orecchio adeguatamente esercitato è indispensabile nella seconda fase di studio dell’etnomusicologo, quando cioè quest’ultimo studia il materiale raccolto sul campo x renderlo accessibile a coloro che non hanno mai udito l’originale, trascrivendo in notazione occidentale. In questa situazione è di grande importanza avere un grande controllo in quanto le trascrizioni sono soggettive, forse fin troppo x essere accettate acriticamente. Ma anche queste apparecchiature pongono grosse qutioni, x quanto siano xfette servono a un unico scopo: la misurazione fedele dei costituenti della melodia che il fonografo riproduce. E volendo anche la valutazione più precisa della tonalità e del metro non ha che un valore limitato. Il compito essenziale del ricercatore è l’organizzazione, l’analisi e l’interpretazione del materiale grezzo fornito dal registratore; esso richiede un’opera di raggruppamento, di suddivisione in frasi e punteggiatura, è il compito lontano dall’infallibilità. Per quanto riguarda invece il problema di come esprimere gradi differenti da quelli del nostro sistema ben temperato, ci si imbatte in numeri, frazioni, divisioni e logaritmi. Le note che udiamo differiscono tra di loro unicamente x una qualità fattuale, fisica: la frequenza delle vibrazioni o, in altre parole, la somma delle oscillazioni che compie la corda di uno strumento. I nostri diapason quando rendono un LA normale vibrano 440 volte in avanti e 4440 volte indietro, questa frequenza è in ogni caso la misura unica e imprescindibile di una singola nota; è più complicato descrivere il grado, cioè la distanza o intervallo, fra due note. Per esprimere tale intervallo in cifre dobbiamo fare il rapporto fra le due frequenze (quando una nota vibra 440 volte avanti e un’altra 3330, il loro intervallo è 440:430 o 4:3) ma non sempre i rapporti sono così semplici, in quanto vi sono casi in cui si presentano rapporti non fattibili. Risulta dunque necessario trasformare la frequenza in un logaritmo, tale trasformazione implica la trasformazione dei rapporti scomodi in sottrazioni esprimibile in un numero semplice; possiamo così esprimere distanze simili mediante numeri identici senza considerare intonazioni e frequenze, tale numero è il logaritmo dell’intervallo in questione. Volendo raffigurare le distanze in modo che i numeri restituiscano un’immagine chiara della misura che si sta ricercando dobbiamo servirci del sistema logaritmico dei Savart, un savart equivale a 4 cents e il semitono è espresso da 25 e 100 cents. Secondo quanto sostiene Ellis un’ottava contiene, secondo il nostro sistema, 12 semitoni guali ciascuno dei quali equivale alla radice dodicesima di 2, ogni semitono nel sistema di Ellis è diviso in 100 cents e tutta l’ottava di conseguenza è divisa in 1200 cents. “(2 rappresenta il rapporto di frequenza delle possibili sfumature di altezza contenute in un’ottava). Ecco dunque cosa fare x calcolare i cents che compongono una distanza o intervallo: 1. Ricerchiamo le frequenze delle due note seguendo uno dei due metodi (visivo o acustico).* 2. Ricerchiamo i due logaritmi e la loro differenza. 3. Trasformiamo il risultato del logaritmo in cents con l’aiuto del quadro tabella standard fissato. Tale trasformazione può essere eseguita dal regolo musicale elaborato da Reiner costruito come un regolo normale nel quale due scale i dodici centimetri l’una si spostano l’una lungo l’altra. La scala di sx rappresenta l’ottava ben temperata do-do da 264 cicli a 528 cicli, la scala è divisa in 10 settori di 10 cicli l’uno, e 4 linee ogni due cicli. Andando avanti le distanze tra due linee divengono progressivamente più brevi poiché le differenze tra i due numeri di frequenza di ogni intervallo trasposto in alto aumentano in progressione. La scala di dx raffigura l’ottava fissa di 1200 cents, misura anche questa 12 cm, ogni cm comprende 100 cents di un semitono e 10 gradi di 10 cents. Per trasformare una distanza in cents il regolo deve spostare la scala dei cents fin quando la sua linea di base si ferma esattamente di fronte al numero di frequenza della nota più alta Nonostante la raffinatezza delle nostre tecniche siamo ancora ben lontani dal trascrivere fedelmente la musica orientale, che non ha nulla a che vedere con le composizioni fatta con carta e penna, il momento della produzione è fuso con quello della riproduzione in un’unità meravigliosa, possiamo noi solo limitarci a rendere perlopiù una melodia priva però di vita. Leggendo la musica orientale trascritta sul pentagramma occidentale si ha un’idea erronea, spazie e linee ci inducono a pensare che le musiche orientali siano senza intonazione; il nostro sistema di scrittura non si presta a indicare le nasalizzazioni, i falsetti, i vibrati, i glissati e tutte le sfumature che sono tratti caratteristici dei diversi idiomi musicali non occidentali. Per ovviare a tale problema Abram e Von Hornbostel pubblicarono nel 1909 delle indicazioni x un adattamento dei simboli più noti quali le note, le code, le chiavi, le lagature, i punti, alle esigenze specifiche della musica non occidentale. Abbiamo quindi la corona rovesciata noto simbolo di allungamento, usata x indicare quali sono i gradi relativi di importanza e di frequenza delle singole note. Nel 1949 a Ginevra presso gli Archives Internationels de Musique populair furono suggeriti simboli quali freccette orientate vs il basso o l’alto a seconda che si voglia abbassare meno la nota di un microtono; un arco convesso indica un leggero allungamento di una nota;uno concavo un leggero abbreviamento. Detto ciò, resta il fatto che nessuna scrittura musicale sarà mai uno specchio fedele, possiamo però confortarci sapendo che i rapidi progressi della fonografia renderanno superflui molti dei nostri simboli grafici, restituendo la musica all’orecchio, al quale in fondo è destinata. Ma finchè siamo costretti alla notazione di ciò che udiamo è necessario, dice Sachs, sottolineare 3 particolari: 1. Trascrivere un pezzo esattamente nella sua chiave originale genera confusione ed è inutile quando la sua tessitura richiede molti diesis e bemolle. Il canto indigeno non si rifà a un diapason, un altro cantante eseguirebbe probabilmente lo stesso brano in una chiave differente, perché dunque imporre il tono, del tutto casuale di una melodia primitiva, quando una semplice trasposizione di un semitono lo libera dalla zavorra di segni accidentali superflui? 2. Evitare tutte le indicazioni di chiave che si richiamano a quelle della musica occidentale. Create cioè x la tonalità nel senso armonico che ci è familiare. 3. Occorre fare attenzione a scrivere gli accidenti necessari nell’indicazione iniziale di chiave soltanto sul rigo o nello spazio che è loro destinato. La musica non ha lasciato altre tracce che quelle che sopravvivono nella tradizione dei popoli attuali. Qui entrano in campo le altre discipline quali antropologia ed etnografia. 2. LA MUSICA PRIMITIVA. Problema di tutta la letteratura musicale è la difficoltà di esprimere con parole la descrizione di brani o stili musicali; una difficoltà ancora maggiore è poi quella di leggerli e assimilarli, mentre è quasi impossibile tradurli effettivamente in immagini, tuttavia la questione non può essere elusa. È un atteggiamento del tutto ingiustificato quello di chi etichetta le melodie non ocidentali con termini come “maggiore” o “minore” a seconda che la nota da lui ritenuta la terza sia a una distanza maggiore o minore dalla presunta “tonica”. c’è poi anche chi ha l’abitudine ancora più deleteria di attribuire alle melodie sentimenti prefabbricati, secondo la credenza occidentale, del tutto infondata, che maggiore debba significare gioia e minore invece tristezza. Questa tristezza sconsolata si attribuisce all’effetto deprimente dell’ambiente. Ma questo non è per fortuna credenza comune nemmeno in Occidente dove molti canti funebri sono anche in tonalità maggiore. Va sottolineato che i più antichi brani musicali sono esclusivamente vocali e pertanto sono melodie pure; si potrebbe definire la melodia come l’andamento percepibile di una voce o di uno strumento, dall’inizio alla fine di un brano compresi i passaggi intermedi; tale movimento è un insieme organico e vivo dotato di scorrevolezza, di tensione e di abbandono; non deve ssere necessariamente melodioso o soave. Anche a livello primitivo una melodia non è mai qualcosa di anarchico o arbitrario ma segue sempre regole precise e quasi inderogabili. Una conseguenza di tale soggezione alle regole è che le tribù sopravvissute dall’età paleolitica usano due stili nettamente distinti uno accanto all’altro e questo senza divisioni geografiche. Il più suggestivo dei modelli melodici primitivi può essere definito MELODIA A PICCO, il suo carattere è selvaggio e violento: dopo un passaggio bruso alla nota più alta di tutta la gamma, in un fortissimo quasi urlato, la voce precipita in basso con salti, cadute o slittamenti verso una pausa, un pianissimo cantato su una o due note bassissime, poi con un balzo, la melodia recupera la nota più alta x ripetere il movimento a picco ogni qualvolta è necessario. Nella sua forma meno emozionale e più melodiosa questo stile richiama le esplosioni incontenibili, le grida quasi inumane di gioia selvaggia o di rabbia da cui probabilmente deriva. Questo tipo di melodia si ritrova intatto nel suo andamento originario tra gli indigeni australiani, a metà strada tra l’ululato e il canto. E’ vero che è impossibile trascrivere questo precipitare casuale e improvviso di note nell’accorta notazione occidentale, ma è anche vero che in quasi ogni parte del mondo esistono altre notazioni più accessibili al nostro pentagramma. Tra tutte ricordiamo le MELODIE A SCALA degli Indiani del Nordamerica, tra queste, piena di pathos nobile e passione, tuttavia contenuta e solenne, appartenente all’insieme più antico di melodie che sono state registrate mediante un fonografo è la melodia degli Zuni del Nuovo Messico che spazia in una gamma di più di 2 attave ed è organizzata secondo uno schema sostanzialmente x terze. Nel canto popolare coreano, affine a quello giapponese, si trovano chiaramente esempi di melodie a picco. Tali le riscontriamo anche nelle Caroline nel 1947 durante uan veglia, il lamento, sebbene uniforme, seguiva però l’andamento unico della melodia a picco. Il tratto essenziale delle melodie a picco è che esse a tratti riconquistano audacemente l’ottava più alta, ciò è degno di nota in quanto al di fuori delle melodie a picco l’ottava non è assolutamente un intervallo preciso nella musica primitiva. Le melodie a picco si sono evolute x un processo di consolidamento interno e non x accrescimento o espansione, gli inizi di tale processo furono irregolare bruschi; all’interno dell’ottava, gli intervalli successivi, erano lasciati al caso, senza che vi fosse alcuna idea di scala e di intervallo. A poco a poco il carattere selvaggio e pittoresco lasciò il posto a un’organizzazione compatta con distanze ricorrenti, con una preferenza x le quinte, le quarte e le terze. Le melodie a picco, con l’intonazione forzata della nota più alta e il calo melodico successivo, costituiscono un esempio notevole di cambiamento d’intensità condizionato da fattori fisiologici, un cantante o musicista sa quanto si a difficile intonare una nota alta piano e una nota bassa con forza, ma anche e soprattutto dal fattore emotivo. Tra le altre cose i cambiamenti d’intensità non si verificano di frequente nella musica primitiva. Comunque sia lo schema è sempre lo stesso: la melodia compie continui balzi verso l’alto x raggiungere l’ottava più alta, inoltra all’interno dell’ottaba alcuni intervalli discendenti assumono la funzione di fermate obbligatori. Tale posizione fissa ha una doppia funzione: uno schema triadico delle ottave x terze e uno schema tetradico x quarte. Analizziamoli. Una cronologia delle ottave x terze nel mondo primitivo non è possibile, tali melodie si presentano sotto ogni possibile sfumatura, alcune compaiono in maniera radicale altre in posizione di seta e quarta. Le melodie a picco si sono evolute fino a divenire formazioni di una semplice sesta anzichè dell’ottava consueta. Accanto alle melodie a picco troviamo a un livello cultuirale meno elevato, un tipo di melodia in apparenza meno emozionale che consiste di due sole note cantate in alternanza, la voce si sposta in alto e in basso, descrivendo una linea orizzontale simile a uno zigzag che sembra suggerire un andamento regolare avanti e indietro, ma non c’è un movimento a spoletta di questo genere. Talvolta si ha un maggiore accentuazione della nota superiore, talvolta di quella inferiore, cosicché essa assuma il ruolo di nota principale, iniziale o terminale. Questo fa si che la melodia sembri indugiare o arrestarsi. Un semplice zigzag è facilmente definibile come monotono ma non nel senso composto da 1 nota bensì nel suo senso figurato. Alcuni recenti opere di argomento etnomusicologico definiscono il movimento aventi e indietro di due note non come monotono ma ditonico, cioè di due toni. Di conseguenza definiscono gli aggregati di tre o più note tritonici, tetratonici e pentatonici, il che non è concepibile. Il termine ditonico possiede almeno 6 significati, le parole tritonico e pentatonico e via dicendo hanno anche a loro volta più significati. Sono termini ambigui da evitare. Il concetto di cui abbiamo bisogno è quello di “intervallo”, melodia è movimento musicale e serie di intervalli laddove el note sono delle semplici fermate o dei punti terminali. Non sappiamo quale sia il fattore che determina la misura dell’intervallo caratteristico di un gruppo tribale, sovente il fattore determinante è il sesso: le donne sembrano preferire intervalli più brevi. A volte il fattore determinante sono le abitudine motorie altre il clima. Al regno delle melodie x seconde si applica un rigoroso non liquet. La loro distribuzione è su scala universale, e non si motivano x condizioni speciali quali sesso o clima. Tuttavia le seconde sono più frequenti nelle civiltà meno evolute. Sembra invece che l’>Africa abbia il monopolio dell’intervallo di terza. La quarta è assente in Europa eccettuata gran parte dell’area orientale e sudorientale, mentre l’intervallo di terza domina dappertutto. Gli intervalli unici da nota a nota rimangono spesso immutati all’interno di una melodia e anche in tutte le melodie di una tribù ma, l’ascoltatore non deve naturalmente aspettarsi che gli intervalli che qui chiamiamo di 2°,3° e 4° siano identici a quelli dei nostri pianoforti, essi hanno un’ampiezza considerevole tanto che talvolta si confondono l’uno con l’altro e chi esegue la trascrizione si ritrova incerto sull’indicare un intervallo come 2° o 3°. O 4°. Un modo x eliminare il dubbio è la trascrizione che indica il numero dei cents della distanza. La situazione però si complica quando x amore dell’espressività i cantanti espandono o riducono intenzionalmente gli intervalli, in particolare ciò accade tra gli indiani d’america i cui strumenti non sono accordati in base a una scala e pertanto non conoscono intervalli standard. I modelli a intervallo unico si potrebbero definire come strutture vuote, essi comprendono solo le note strutturali, distanti tra loro una 2°,una 3° o una 4° o una 5°. Ma la vacuità fdi questi modelli può essere disturbata da note addizionali e ausiliarie imposte magari da una più ricca immaginazione o da abitudine motorie, da necessità insomma. Finchè il nucleo è riconoscibile, qualunque nota addizionale nella melodia è detta affisso se la si aggiunge al nucleo dal di fuori; è detta suffisso se è aggiunta al di sopra; prefisso quando aggiunta al di sotto. Le melodie x seconda possono essere ornate solo cona ffissi. Le melodie per 3°,4° e 5° tendono sempre a risolversi in intervalli più brevi; le note riempitive di queste ultime si dicono infissi.Quindi riepilogando, le melodie a picco ricordano urla selvagge di gioia o rabbia; le melodie orizzontali sono una ripetizione costante della stessa nota, talvolta una reiterazione incessante di due note di tonalità diverse. È possibile incontrare spesso all’interno di una stessa tribù entrambe le melodie, addirittura in una stessa canzone. Le melodie a picco passano da gemiti naturali spontanei, a stilizzazioni addomesticate; le melodie orizzontali si adattano all’inflessione corretta, al metro e al significato delle parole che accompagnano, divenendo così delle melodie parlate realistiche, qualcosa tipo un’imitazione. I canti che fanno parte delle storie di animali nella musica più arcaica degli indiani d’America sono imitazioni delle grida degli animali. Le melodie a intervallo unico sono universalmente diffuse in tutto il globo, in grande parte si trovano presso i popoli più arcaici, ma è possibile trovare qualche esempio anche a livelli più evoluti. La parola magia esprime un complesso di funzioni mentali della massima importanza, attive nel mondo primitivo e che ancor oggi sopravvivono dentro e fuori dai riti religiosi delle civiltà evolute. I primitivi erano dell’idea che tutto ciò che circonda l’uomo è prodotto da esseri benigni o maligni, siano essi demoni o mortali. Le idee e la pratica magiche vengono così ad occupare uno spazio incredibilmente importante nella vita degli uomini e dei popoli, anche a livelli tutt’altro che primitivi. Ovviamente il suono fa parte di queste pratiche. Tutto ciò che produce un suono contiene in sé l’impulso della lotta eterna dell’uomo contro le forze ostili che minacciano la sua vita e il suo benessere; nulla meglio del suono è in grado di parlare alle potenze della sorte e della prosperità. Il canto in questi contesti si caratterizza come atto di estasi e di spersonalizzazione, si distacca dalla comune spressione umana; la voce spesso è assai lontana dall’essere naturale e spesso assume sfumature diverse come accentuazioni e falsetti che somigliano al ventriloquio o al lamento. Alcuni distinguono queste sfumature in relazione allo scopo del canto. In tutto il mondo si incontrano canti dallo strano accento nasale. Esistono poi strumenti atti a modificare la voce dello sciamano ad esempio gusci di crostacei messi davanti alla bocca, danno un suono più cupo, misterioso e sovrumano. Gli atti intesi a eliminare le caratteristiche individuali della voce umana nei rituali magici non esauriscono l’insieme dei manierismi specifici che in tutto il mondo caratterizzano vari stili musicali. All’orecchio di un occidentale tutti i canti orientali e primitivi suonano innaturali e pieni di manierismi strani e insoliti, una nota sola cantata da un orientale e un occidentale può rendere la differenza e il concetto. In questo contesto nasce la complessa questione del MANIERISMO VOCALE. Entrò x la 1° volta nel campo quando Von Hornbostel si interessò circa lo stile volcale degli Indiani americani, descrivendone l’enfasi e l’accentuazione, le somiglianze con gli sbuffi di una macchina a vapore, con la caretteristica rottura delle note più lunghe in una pulsazione uniforme. Dopo di lui, Merriam si interessò dello stile degli Indiani Flathead definendo lo stile a denti stretti o ventriloquiio, gola con apertura stretta senza risonanza delle cavità nasali superiori, si produce un’esecuzione di qualità penetrante. Tensione ed enfasi sono presenti anche nei canti della Siberia. Gli indiani americani eseguono i loro canti di corteggiamento in un modo del tutto diverso, queste canzoni, che si pensa derivino da melodie x flauto, hanno delle caratteristiche spiccatamente strumentali, sono lente, prive di accento, hanno un’intonazione nasale e sovente sonot remule x effetto della mano che viene agitata davanti alla bocca durante l’esecuzione.la voce subiva le variazioni corrispondenti a quelle del testo. I maori della Nuova Zelanda eseguono i canti di guerra rapidamente, in un falsetto sferzante, microtonico, che sembra quasi un pigolio eccitato da cortile;è uno stile “teso”. Gli indigeni australiani cantano ogni nota con una specie di energica espirazione, emettendo un rantolo continuo e x lo sforzo rimangono spesso senza fiato. Sempre in Australia si trova uno stile di canto caratterizzato da una sorta di grugniti provenienti dall’addome, che non ha corrispondenti in nessun altro paese. Nell’Uganda invece esistono diverse tecniche di emissione della voce: c’è chi si picchietta la gola con le punte delle dita, c’è chi ululula o modula la voce, oppure chi canta glissando. In estremo Oriente vi sono addirittura sette stili differenti, uno x ogni situazione emozionale, anziché un’unica tecnica d’emissione come avviene in Occidente. Tutte queste tecniche diverse hanno il loro valore. In effetti l’occidente accanto a uno stile ufficiale conosce anche uno stile sommesso, uno sentimentale e uno parlato. Questo quadro composito ci indica che molti gruppi tribali adottano vari manierismi vocali a seconda del sesso, della dislocazione geografica e delle circostanze, va comunque evitato ogni tentativo di distinzione x razza. Per ottenere unq uadro complessivo occorre muoversi su una base più ampia ed evitare le teorie preconcette. Un manierismo degno di nota è quello degli indigeni Tuamotu, uno stile tremulo, che ricorre anche alla cultura indiana più evoluta. Tale stile è stato csuddiviso in 3 modelli melodici: interamente cantato in voce tremula, parzialmente con voce tremula, totalmente senza voce tremula. Al di la del manierismo il fatto più notevole è che in numerosi paesi del mondo per le voci maschili predomina il registro alto; le voci di barutono e di basso vere e proprie non esistono , generalmente. Parliamo ora dello stile NO’ giapponese; è estremamente gutturalizzato, nasalizzato e molto impuro nel registro inferiore; il termine gutturale indica una tensione estrema dei muscoli costrittori della gola, mentre nasale indica la tensione dei muscoli facciali, ma non la risonanza della cavità nasale. La respirazione è poco profonda e la voce non è animata dal vibrato; qua e la si avverte un breve e improvviso salto verso e dal registro superiore, x il quale non esiste un termine specifico, ma si potrebbe definire spasmo o scatto. Gli sciamani accellerano il canto nell’intento di accrescere il carattere eccitato ed eccitante dell’incantesimo terapeutico, ma un aumento di velocità può verificarsi anche in altre circostanze in canti che cominciano fortissimo x poi decrescere fino alla nota inferiore cantata pianissimo. La conoscenza degli strumenti oltre che importante in generale, è vitale nello studio della musica orientale e primitiva: questi sono le uniche reliquie musicali che rimangono a distanza di 10mila anni.
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