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Filosofia del diritto:
Appunti completi di filosofia del diritto, che affrontano in maniera attenta ed esaustiva tutti gli argomenti trattati nel corso. In particolare ripercorrono soffermandosi sull'analisi dei testi e delle opere delle più importanti personalità che hanno contribuito allo sviluppo di questa disciplina, con particolare attenzione alle questioni che meglio si ricollegano all'ambito giuridico. Ricordiamo ad esempio, Socrate, Platone, Locke, Hobbes, Kelsen e molti altri.
Dettagli appunto:
- Autore: Greta Guidetti
- Università: Università degli Studi di Pisa
- Facoltà: Giurisprudenza
- Corso: Giurisprudenza
- Esame: Filosofia del diritto
- Docente: Milazzo
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FILOSOFIA DEL DIRITTO Appunti di Greta Guidetti Università degli Studi di Pisa Facoltà di Giurisprudenza Corso di laurea in Giurisprudenza Esame di Filosofia del diritto Docente: Milazzo Anno accademico - 2021/2022Secondo alcuni, la storia della filosofia del diritto presenta cesure profonde, da cui emergono diversi dispositivi concettuali, utili per comprendere cosa si sia inteso per legge, diritto, giustizia in epoche diverse. Le età variano al variare dei concetti dei quali ci occupiamo. Tanto i concetti quanto le età sono strumenti del pensiero, categorie utili per interpretare fatti ed eventi, secondo il significato che noi attribuiamo ad essi interpretando il nostro o l’altrui agire. Fu chiarito (nel secolo passato) e da Norberto Bobbio, uno dei massimi filosofi del diritto del ‘900: “Chi pensa che si possa parlare di stato solo a proposito degli ordinamenti politici di cui ad esempio hanno trattato Bodin, Hobbes ed Hegel, si comporta in questo modo perché vede più le discontinuità che le continuità, più le differenze che le analogie; chi parla invece indifferentemente di stato sia per quello di Bodin che per la polis greca ad esempio, vede più analogie che differenze, più le continuità che le discontinuità, il che dipende dai suoi valori, interessi, dal contesto culturale nel quale si colloca.” Anche le nostre convinzioni circa il diritto e la giustizia, sono storicamente determinabili e destinate a mutare nel tempo. Per questo è necessario fare della filosofia del diritto storia. 2 questioni particolarmente importanti: • Questione ontologica: verte sulla natura del diritto, si interroga sulla stessa definizione di diritto, si chiede cosa sia il diritto con diverse prospettive • Questione deontologica: questioni nelle quali il diritto può ritenersi valido; cioè le condizioni per le quali il diritto possa ritenersi giusto La distinzione tra queste due questioni è storicamente situata; a lungo infatti questa esigenza non fu avvertita, per secoli si ritenne che il diritto fosse in effetti ciò che è giusto e non si avvertiva la necessità di parlare di diritto in sé. Se si intende il diritto come ciò che è giusto non ha senso chiedersi a quali condizioni lo stesso possa considerarsi valido; questa esigenza si avvertì quando, nel tardo medioevo, per alcuni nella prima modernità, si sviluppa l’idea che il diritto consista nella prescrizione della legge. Si radica quindi l’idea che il diritto non rappresenti di per sé ciò che è giusto, ma debba essere ricercato nella prescrizione della legge. A partire da questo momento fu possibile distinguere le due questioni. Bisogna operare diacronicamente attraverso i testi per verificare tale ipotesi. ANTIGONE DI SOFOCLE 1Qui classicamente si ritiene possibile individuare per la prima volta la contrapposizione tra gli imperativi del tiranno spietato (imperativi del diritto positivo) e i precetti di una legge che vige da sempre ed esprime le istanze della giustizia in sé considerata. È possibile interpretare diversamente il testo ritrovandovi invece dell’opposizione fra diritto inteso come ciò che è prescritto dalle autorità costituite ed il giusto in sé, individuando lo scontro tra due diversi modi di intendere la giustizia, cioè il conflitto tra diversi ordini normativi entrambi basati su istanze di giustizia ritenute oggettivamente valide (interpretazione di Hegel ad esempio). Non si tratta quindi del conflitto tra il giusto ed il diritto, ma di quello tra diversi modi di intendere ciò che è giusto. L’Antigone fa parte del ciclo tebano, che tratta le vicende di Edipo e della sua progenie. Quando venne al mondo su di lui vi era già una profezia: secondo la quale avrebbe ucciso il padre e si sarebbe congiunto con la madre. Per questo alla nascita, il padre, Laio di Tebe e la madre Giocasta, lo consegnarono a un servo pastore affinché lo uccidesse sui monti. Il servo ha pietà e invece di ucciderlo, lo consegna a un altro servo pastore di Corinto, che lo porta con sé in città, dove è adottato da Polibo (re di Corinto) e dalla moglie Merope, per tutta la vita ignora le sue vere origini. Solo durante un banchetto si iniziano ad insinuare dei dubbi sulle sue origini, così turbato si reca dall’oracolo di Delfi per interpellarlo. L’oracolo gli rivela la profezia, rendendolo consapevole del suo destino, ma non gli dice chi siano i suoi reali genitori. Allora egli abbandona Corinto per evitare che la profezia si avveri, allontanandosi da quelli che crede siano i suoi genitori. Durante il tragitto ad un incrocio litiga con un vecchio su un carro con i suoi servi e alla fine li uccide, rimane un solo superstite. Egli ne ignora l’identità ma sappiamo che si tratta in realtà di suo padre Laio. Edipo giunto a Tebe risolve gli enigmi della sfinge e viene eletto re, così gli viene data in sposa Giocasta (sua madre). In questo modo si realizza la profezia nonostante gli sforzi di Edipo. La maledizione si riversa sulla città, investita da varie epidemie. La città supplica Edipo di salvarla, ed egli manda il cognato Creonte dall’oracolo di Delfi, il quale rivelerà che l’ira degli dei si sta abbattendo sulla città perché è rimasto impunito l’assassino di Laio. Per salvare la città bisogna trovare l’assassino, che secondo l’oracolo è sempre presente all’interno della cittadina e ucciderlo o mandarlo in esilio. Inizia un’INDAGINE, condotta da Edipo che ignora il fatto che sia proprio lui stesso l’assassino. Foucault (pensatore), in alcune conferenze del 1973 a Rio de Janeiro, pubblicate in seguito come “Verità e forme giuridiche”, sostenne che questa tragedia fosse la prima testimonianza delle pratiche giuridiche greche, la storia della ricerca della verità, procedimenti che obbediscono alle pratiche greche di quell’epoca. Chiarisce in seguito però che la prima vera testimonianza della ricerca della verità risale invece all’Iliade, cioè la storia della disputa tra Antiloco e Menelao durante i giochi in onore della morte di Patroclo. Achille per celebrarlo organizzò una gara di carri. Venne stabilito il campo e in prossimità della meta era presente un tale per verificare che la gara si svolgesse regolarmente. I carri partono ma in prossimità della meta, in seguito a una frana che causa il restringimento del percorso, Antiloco cerca di superare Menelao e riesce grazie a questa conformazione; Menelao per paura di essere buttato fuori strada deve frenare e lasciarlo passare. Alla fine Menelao ritiene di aver subito un’ingiustizia: 2“Antiloco avevi la testa apposto, ma che tiro mi hai giocato… Hai tagliato la strada ai miei cavalli, portandoti avanti con i tuoi che erano da meno. Condottieri giudicate voi in modo imparziale tra noi due” Nessuno pronuncia il verdetto e Menelao propone una soluzione: chiede ad Antiloco di mettersi in piedi davanti al suo carro e tenendo in mano la frusta, di giurare toccando i suoi cavalli che non ha fatto apposta, in prossimità della strettoia, a tagliargli la strada. Lo sfida quindi a giurare, ma Antiloco non ha il coraggio e così la vittoria è assegnata a Menelao. Ne “L’Edipo re”, viene però utilizzato un meccanismo differente. Nonostante si incontrino tracce dei procedimenti arcaici, la tragedia è fondata su un sistema di metà che si aggiustano e si accoppiano, conducendoci alla verità. • Due profezie: quella di Apollo e di Tiresia • Due testimonianze: di Giocasta ed Edipo, che si combinano perfettamente • E quelle dei due servi: Nunzio di Corinto, che va a Tebe per riferire della morte di Polibo, lo stesso servo a cui fu consegnato Edipo, e quella del servo di Laio, sopravvissuto alla strage, lo stesso al quale venne consegnato il bambino affinché lo uccidesse. PROFEZIE: Apollo e Tiresia Il primo ordina di espellere, perché non divenga immedicabile, l’impurità cresciuta a Tebe. Impone di punire con la forza gli uccisori di Laio, rintracciabili proprio in quella stessa terra. Tiresia (indovino), vorrebbe sottrarsi agli interrogativi di Edipo, il quale arriva ad accusarlo di tacere perché responsabile dell’assassinio, lo spinge così a rivelare la verità. “Attieniti all’editto che tu stesso hai proclamato e non rivolgere più la parola né a me né a costoro, perché sei tu l’essere immondo che ha condannato questa terra” Edipo turbato decide di parlarne con Giocasta: combinazione tra le DUE TESTIMONIANZE. Giocasta per rassicurarlo gli dice di non credere alle profezie, che non rivelano la verità: un giorno fu predetto a Laio da i ministri di Febo, che sarebbe morto per mano del figlio nato da lei, il quale poi si sarebbe congiunto con la stessa. Laio fu invece assassinato da un gruppo di briganti stranieri, inoltre subito dopo la nascita il bambino venne abbandonato su un monte. Gli dice quindi di non preoccuparsi, perché ciò che il Dio vuole lo rivela agevolmente. Sempre più preoccupato Edipo interroga la sposa: Laio fu assassinato al crocevia di tre strade, ma dove si trovava il luogo del delitto? Quanto è trascorso da quel giorno? (la notizia arrivò poco prima che tu fossi re); Quale aspetto ed età aveva Laio? (alto non molto diverso da te); Aveva una piccola scorta o un largo seguito come si conviene a un re? (erano cinque in tutto e andavano su un piccolo carro); Chi vi portò la notizia? (un servo, unico sopravvissuto) L’ultima speranza era che l’uccisione fu portata a termine da un gruppo di briganti e non da un solo uomo; allora Edipo vuole interrogare il superstite. Giocasta esige spiegazioni, così il ragazzo le racconta la sua storia: durante il tragitto, in prossimità di quell’incrocio, incontrai un aratro con a bordo un uomo come tu lo hai descritto, il guidatore e il vecchio volevano spingermi fuori strada, 3allora infuriato lo colpì, iniziò quindi una lite che terminò con l’uccisione del vecchio e dei suoi servi. A Tebe si presenta Nunzio di Corinto, che annuncia la morte di Polibo, Edipo che ignora la verità si sente rassicurato: il padre è morto per cause naturali, adesso teme solo di congiungersi con la madre. Nunzio rivela però che Polibo e Merope non erano i suoi genitori naturali. Entra in scena il servo superstite dal quale Edipo apprende la sua storia. Adesso tutta la situazione è chiara. Edipo si acceca e Giocasta si impicca. Foucault afferma che l’opera sposta la luce della verità da un discorso profetico e prescrittivo (oracolo) a un altro retrospettivo (testimonianza); è un modo di spostare la luce della verità dallo splendore profetico divino, verso lo sguardo empirico e quotidiano dei pastori. Tra pastori e dei vi è una corrispondenza: dicono e vedono le stesse cose ma con linguaggio e occhi differenti. Tra i due vi è un livello intermedio cioè quello dei re, in cui troviamo Edipo e Giocasta. La questione della verità mette in gioco la sovranità, dalla verità ricercata dipendono le sorti personali di Edipo ma anche la sovranità in sé. Durante la tragedia essenzialmente è in questione il potere di Edipo. L’”Edipo re”, si presenta come un riassunto della storia del diritto greco, che sintetizza una delle grandi conquiste della democrazia ateniese, la storia del processo attraverso il quale il popolo, cioè i pastori, si impossessò del diritto di giudicare, opporre la verità ai suoi stessi signori, giudicare chi governava. La conquista del diritto di dare testimonianza fu possibile alla fine di un grande processo sviluppatosi ad Atene durante il secolo V. Questa possibilità dette origine a diverse forme culturali come la filosofia, i sistemi razionali e scientifici, secondo Foucault modalità di ricerca della verità che si delinearono e finirono per prevalere nella modernità, si originarono da una vicenda politica alla fine della quale il popolo si appropriò del diritto di opporre la verità al potere. Quando la verità è rivelata Edipo si acceca e va in esilio; i due figli Eteocle e Polinice, si rimbalzano il trono, finché non si accordano per reggerlo a turno. Tuttavia Eteocle (il più giovane) estromette il maggiore e lo bandisce. Polinice si rifugia ad Argo, e si presenta alle mura della città con l’esercito per riappropriarsi di ciò di cui era stato privato. La guerra volge al termine e i due muoiono uno per mano dell’altro. Inizia qui la vicenda di cui si tratta nell’Antigone di Sofocle: Creonte che deve farsi carico del regno, proclama un decreto, ordinando che fosse data sepoltura a Eteocle, che nonostante le inottemperanze è morto difendendo la sua terra, e vietò che venisse data a Polinice una qualsiasi forma di sepoltura, dato che era tornato dall’esilio per portare le armi contro la città. Dovevano quindi essere trattati in maniera diversa. Antigone, la sorella, trasgredisce al decreto, e si reca sul campo di battaglia per seppellire il cadavere del fratello. Scoperto il fatto Creonte fa disseppellire il nipote. Tuttavia la ragazza si reca nuovamente sul campo per dare sepoltura al fratello, per questo viene portata via in catene. Creonte la interroga: le chiede se veramente fosse stata lei ad eseguire il fatto, Antigone asserisce; le chiede 4se fosse a conoscenza del decreto, lei asserisce; infine le chiede quale motivazione l’avesse spinta a trasgredire a questa legge, la sua risposta fu: “L’ho fatto perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike che abita con gli dei sotterranei, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi, ne avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare leggi non scritte incrollabili degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dei”. Creonte non ha via d’uscita, deve applicare il suo stesso decreto, benché Antigone sia sua nipote e promessa sposa del figlio, deve condannarla a morte, come il decreto prescriveva. Il figlio allora perora la causa della fidanzata: “So quanto la città lamenta, che questa fanciulla, la più innocente fra le donne, debba morire della morte più indegna per un atto così nobile, lei che non permise che suo fratello, caduto nella lotta sanguinosa, giacesse insepolto per finire dilaniato dai cani famelici” “La città non sostiene le tue ragioni, sei in errore se credi che la città sia d’accordo con te, lamenta piuttosto la sorte che tu vuoi riservare a questa fanciulla che ha compiuto il più nobile dei gesti, violando il tuo decreto per dare sepoltura al fratello, in ossequio alle leggi non scritte degli dei che vivono da sempre”. Creonte è apparentemente irremovibile, trascura le ragioni della città e la rende una questione personale. È indispettito dal mancato appoggio della città. Qualcosa nella sua risolutezza sembra inclinarsi. All’inizio della tragedia avevamo appreso che il decreto prescriveva che chi avesse sepolto illecitamente il cadavere di Polinice sarebbe stato lapidato; dopo il dialogo con il figlio (Emone) Creonte, però dichiara che condurrà Antigone in un luogo incalcato dal piede umano per rinchiuderla in una grotta rupestre, dandole il minimo quantitativo di cibo. Applica quindi una pena diversa da quella stabilita nel decreto, venendo meno alla sua stessa legge. A cosa si deve questa scelta? (possiamo fare solo congetture) Ci basiamo sulle considerazioni sulla pena ed il reato del sociologo Durkheim (seconda metà del secolo XIX e primo ventennio del XX) Nella sua tesi di dottorato afferma: “chiamiamo reato ogni atto che determina contro il suo autore la reazione sociale caratteristica, determinata pena”. Il reato non è un male in sé o una condotta in sé riprovevole MA deve considerarsi reato ogni condotta alla quale sia imputata una pena, cioè una reazione sociale. Un atto è criminale quando offende la coscienza collettiva, pertanto non è che un atto urta la coscienza comune perché criminale, ma piuttosto si definisce criminale ciascun atto che urta la coscienza comune. Una condotta è un reato perché la biasimiamo. Per stabilire se un’azione è un reato bisogna analizzare la pena. Ad essa sono attribuite diverse funzioni: RETENTIVA, se serve per punire il male, oppure PREVENTIVA, che può essere generale o speciale, a seconda che si infligga per evitare che altri commettano il reato o per evitare che altri reati vengano commessi da colui a cui viene inflitta la pena. Per il sociologo, nessuna di queste rappresenta la funzione preminente della pena. Se quando il delitto si produce, le coscienze che urta non si unissero per testimoniarsi reciprocamente, e per testimoniare che quel caso particolare è un’anomalia, queste non potrebbero evitare a lungo andare di perdere il loro vigore. Devono rassicurarsi a vicenda, reagendo in comune. La pena non deve primariamente correggere o 5intimidire i trasgressori, MA mantenere la coesione sociale. La pena nell’organismo sociale deve confermare la coscienza collettiva nei suoi valori fondativi, così infliggendo la pena si sottolinea la credenza in questi valori. Per questo la lapidazione potrebbe correttamente rappresentare la funzione della pena, dato che esige la partecipazione corale di tutti coloro che sono parte della comunità politica: tutti dovrebbero scagliare la pietra, confermandosi gli uni con gli altri. Questo potrebbe spiegare perché gli intendimenti di Creonte mutarono, dopo aver appreso dal figlio che la città non condivideva le sue idee: la lapidazione avrebbe solo reso evidente il dissenso della città. Dopo il dialogo con il figlio, Creonte incontra Tiresia che gli rivela che la sua tracotanza stuzzicherà l’ira divina. La città è impura a causa della mancata sepoltura di Polinice, infine afferma che tutta questa situazione soccomberà sul figlio. A questo punto Creonte sconvolto, ordina che Polinice venga sepolto e Antigone liberata. Quando giungono alla grotta però scorgono il corpo della donna appeso ad un cappio, l’ordine di liberarla è arrivato troppo tardi. Emone nel vedere il cadavere dell’amata, tenta inizialmente di colpire il padre con la spada ma non riuscendoci, la rivolge verso sé stesso e si uccide. RIFLESSIONE Sarebbe semplice interpretare questa storia basandoci sull’opposizione del bene e del male, che è stata per molto l’interpretazione prevalente, tuttavia risulta essere insoddisfacente perché banalizzerebbe la tragicità della vicenda. Si tratta piuttosto dell’opposizione tra due diverse istanze di giustizia: anche tra chi assisteva alla vicenda probabilmente vi erano alcuni dalla parte di Antigone ed altri non indifferenti alle ragioni di Creonte; ciascuno poteva essere diviso tra queste due. Hegel vi legge l’opposizione tra l’etica della parentela/ del ghenos, rappresentata da Antigone, e quella della polis/ ragion di stato / del bene comune, rappresentata da Creonte. Teoria accettata in parte ma non completamente sufficiente. IPOTESI sulle ragioni di Antigone: • Si può considerare una ribelle/ rivoltosa? Emone afferma che lo nega tutto il popolo di Tebe. Creonte nel dialogo con la donna, credeva di aver offerto lei delle vie d’uscita, che sarebbero state vantaggiose anche per sé stesso, interpreta le sue risposte come una sfida, dato che non si limita a sottrarsi dal decreto violandolo, ma orgogliosamente se ne assume la responsabilità. Vuole rendere noto il suo gesto, lo esplicita anche alla sorella; possiamo dire che si esprime con la voce della sovranità, e così facendo sfida la sovranità maschile di Creonte. Creonte non avrebbe mai permesso ad una donna di dare ordini finché fosse stato al governo, interpreta questo gesto come ribellione. Antigone si assume la responsabilità del suo gesto, assoggettandosi così alla sanzione prevista per la violazione del decreto; pertanto non si comporta clandestinamente ma si assume la responsabilità dei propri atti e non si sottrae all’obbligo giuridico, nonostante disobbedisca all’obbligo politico. Viola una norma ma non si sottrae alla sanzione. Da questo punto di vista non si può considerare rivoltosa, ma anzi per alcuni versi sembra confermare la validità dell’ordinamento nel complesso, seppur disobbedendo a una norma che ritiene ingiusta. Compie una disobbedienza civile e non si sottrae 6alle conseguenze, vorrebbe modificare l’ordinamento civile attraverso gli strumenti che questo le fornisce. Si preoccupa che il suo gesto sia ben visibile e pubblico, che comporti le sanzioni; affinché siano rese note le conseguenze che l’ordinamento prevede per questa norma. Un ribelle avrebbe invece disconosciuto le autorità, sottraendosi alla sanzione. • Da Tiresia apprendiamo che Creonte non aveva vietato solo la sepoltura del nipote, ma quella di tutte le persone cadute portando la guerra a Tebe. Riflettiamo però che Antigone avverte il dovere di dare sepoltura solo a suo fratello, non a tutti i caduti. È proprio il divieto da parte di Creonte di seppellire SUO fratello che la disturba. Afferma inoltre che non avrebbe fatto lo stesso per suo figlio o suo marito, questo perché se avesse perso il marito e il figlio avrebbe potuto in quale modo “sostituirli”; ma dato che i suoi genitori erano ormai deceduti, nessuno avrebbe potuto darle un altro fratello, per questo gli ha reso onore. Non adempie ad un dovere nei confronti di Polinice, né ad un proprio dovere, ma adempie ad un dovere nei confronti della sua progenie in quanto tale, seguendo la logica del ghenos; dato che ormai la sua integrità non potrà essere rispristinata ella non può sottrarsi all’obbligo di fornire al fratello un’adeguata sepoltura. Sembra quindi infondata l’interpretazione di Hegel perché se si trattasse dell’etica della parentela, Antigone, avrebbe sicuramente fatto la stessa cosa per il figlio o addirittura per il marito. Con questo passo possiamo realmente capire cosa si intenda per logica del ghenos: non individui seppur con legami diretti (marito-moglie) ma il ghenos nella sua totalità. L’idea di Hegel è insidiosa perché si basa sull’opposizione tra parentela e lo stato che si presume sia fondato su basi antitetiche a quelle della famiglia. Da una parte abbiamo la famiglia dall’altra lo stato, l’ordine gerarchico della comunità. Il ribaltamento di questa contrapposizione ha avuto ampia fortuna, almeno in una parte, nel femminismo giuridico, il quale si è illuso di poter contrapporre proficuamente, alle logiche famigliari del patriarcato, quelle giuridiche e politiche come fossero una soluzione al problema della dominazione maschile; è necessario che il pubblico pervada il privato affinché siano eliminate le logiche patriarcali che caratterizzano la famiglia. I Critici di questa prospettiva (femminismo giuridico), hanno ritenuto di poter mettere in discussione i presupposti stessi su cui questo si basa: in fondo, dice Buttler, che non è affatto vero che le logiche della parentela e quelle politiche si oppongono l’una a l’altra, e si vede nel fatto ad esempio che Creonte si trova al potere grazie a legami di parentela. C’è veramente un’opposizione esplicita fra l’ordine politico statale e quello patriarcale? Afferma Butler che nella prospettiva Hegeliana, Antigone rappresenta l’emblema della parentela e della sua distruzione, mentre Creonte quello dell’autorità dello stato basato sui principi dell’universalità. In questa prospettiva il vero progressista è il secondo, mentre Antigone risulta conservatrice perché rimane legata alle logiche del ghenos, ormai superate. Per Hegel Antigone è la legge degli Dei e Creonte la legge dello stato, il conflitto tra i due è uno scontro in cui la parentela deve cedere allo stato. Antigone non può considerarsi ribelle, certamente non adempie ad un imperativo universale di pietà verso i defunti, dato che sente di dover dare sepoltura al fratello e basta. Chiediamoci: Quali sono le ragioni che la inducono a violare il decreto? Possiamo trarle dai dialoghi con Creonte e con la sorella, argomentazioni consequenzialistiche: la sanzione nella quale incorrerebbe violando le leggi 7non scritte degli Dei, sarebbe ben più grande di quella prevista per la violazione del decreto, considerando anche che dovrà passare ben più tempo con gli Dei che in terra, il castigo degli Dei sarebbe più grave. Non sembra agire seguendo un imperativo categorico, ovvero non decide di agire seguendo solo l’imperativo in quanto tale o perché sente il dovere di dare sepoltura al fratello, ma piuttosto sembra agire considerando primariamente le conseguenze che deriverebbero dalle sue azioni. La stessa ritrattazione di Creonte non sembra spinta dalla comprensione delle buone ragioni della donna e della città che le sostiene, ma piuttosto dal terrore suscitato dalla minaccia di Tiresia, che gli annuncia che pagherà con la vita del suo stesso figlio. Sembrano prevalere la gerarchia delle fonti piuttosto che il valore degli argomenti in sé considerato. Le leggi degli Dei prevalgono su quelle umane, e allo stesso modo anche le conseguenze. RAGIONI di CREONTE: dopo essere stato chiamato a governare (suo malgrado), enuncia i principi ai quali si sarebbe attenuto: • Gli interessi della comunità politica devono prevalere sui legami personali, soprattutto quando a dover decidere è colui a capo della comunità politica: non può far prevalere i suoi legami sul bene comune, perché: “solo navigando su uno stato prospero, possiamo assicurarci dei veri amici” • Ciascuno deve essere trattato come si merita: Polinice, ad esempio, pur essendo suo nipote, non potrà essere guardato con riguardo perché ha portato le armi contro la città, Antigone è sua nipote e la sposa di suo figlio, ma nonostante questo Creonte non può esimersi dall’applicare la pena che avrebbe applicato a chiunque altro • Se ciascuno obbedisse soltanto alle norme che ritiene giuste, presto finirebbe per non obbedire ad altri che a sé stesso: a chiunque abbia il potere bisogna obbedire, anche quando si ritengano le sue prescrizione ingiuste, NON c’è male più grande dell’anarchia. Queste prescrizioni erano molto persuasive per i cittadini, erano profondamente radicate nel pensiero del tempo. Creonte si può considerare o no un giuspositivista? Come abbiamo già detto, nell’Antigone, si tratta dell’opposizione tra due modi differenti di intendere la giustizia: questa questione può essere formulata chiedendoci se Creonte sia portatore delle ragioni del diritto positivo in quanto tale o no. GIUSNATURALISMO: è il complesso di dottrine per cui, esiste oltre al diritto positivo, il diritto naturale; ovvero ci sono principi universalmente validi, che ci permettono di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato; esistono dei criteri oggettivi di bene e male. Secondo Essa si ha il dovere di obbedire al diritto positivo, solo nel caso in cui questo risulti conforme a questi parametri universali di bene e male. Quindi il significato soggettivo del precetto, acquisisce validità oggettiva solo se il precetto è conforme al diritto naturale. La norma e il diritto positivo sono quindi da ritenere validi se coincidono con il diritto naturale. 8GIUPOSITIVISMO: è il complesso di dottrine per cui il diritto naturale non esiste, non esistono criteri oggettivi sempre validi che ci permettono di distinguere bene e male; dunque per i giuspositivisti possono esistere solo ragioni relativamente valide per dare obbedienza all’autorità. Per loro non è possibile fondare oggettivamente l’obbligo di obbedire alle leggi, né stabilire oggettivamente quando obbedire al diritto positivo. Un giuspositivista potrà quindi solo stabilire che, da un certo punto di vista, alcune condotte sono doverose e altre no; ma non potrà mai dire che esse debbano essere doverose oggettivamente e in ogni caso. In conclusione Creonte NON è un giuspositivista, questo perché se lo fosse, i principi da lui enunciati, sarebbero privi di significato. I primi due argomenti sono schiettamente giusnaturalistici, dato che si presentano come validi oggettivamente; il terzo argomento dal punto di vista strutturale/formale non sembra essere diverso dai precedenti, dato che afferma che è giusto obbedire anche quando non si è d’accordo, perché ci sono interessi o valori che devono venire prima di ogni altro valore (conservazione dell’ordine politico, la prosperità della comunità politica e la sua sopravvivenza), questo perché i destini di ogni persona sono strettamente legati alle sorti della comunità sociale della quale fanno parte. Questo presuppone che creda che esistano principi oggettivi di bene e male. Il positivismo giuridico può tuttavia essere interpretato in maniera più esaustiva, secondo Norberto Bobbio si possono evidenziare tre aspetti del positivismo giuridico: • Può essere un metodo di studio: giuspositivismo Metodologico È la scelta per lo studio dottrinale e teorico del diritto di un metodo rispettoso del principio di avalutatività, che impone sia allo scienziato che al teorico di astenersi dal dare valutazioni. Nessune nega che il diritto sia intriso di valori e che le sue norme siano espressione di tali valori, come si può allora essere avalutativi se l’oggetto che analizziamo è caratterizzato da questi valori? Bisogna distinguere la formulazione da parte dello scienziato di GIUDIZI DI VALORI e la deduzione di conclusioni che si ritengono essere scientificamente vere, dal RIFERIMENTO AI VALORI di coloro il cui agire viene analizzato. Il significato di un certo gesto dipende dall’orientamento normativo dei valori di chi lo commette, per capire cosa sta facendo non possiamo non riferirci ai suoi valori. Lo scienziato NON deve sovrapporre i propri valori a quelli della gente per arrivare a conclusioni che egli pretende siano oggettivamente valide, ma che in realtà dipendono dai suoi valori soggettivi; dovrà fare riferimento ai valori della gente, ma le domande stesse che formulerà dipenderanno dai suoi valori. Secondo loro è possibile che, nello studio del diritto, lo scienziato faccia riferimento ai valori presenti dal discorso ma dovrà far discendere le conclusioni a prescindere dai suoi valori. Il fatto che il diritto sia pieno di valori, non significa che questo non possa essere studiato applicando questo principio. • Una teoria del diritto: giuspositivismo Teorico Quel complesso di dottrine che sono state elaborate nel ‘900, da giuristi, i quali ritenevano di applicare il metodo giuspositivistico. Esse consistono in conclusioni nelle quali i giuristi hanno sostenuto di aver applicato questo metodo. • Una ideologia: giuspositivismo Ideologico 9È la tesi normativa secondo la quale al diritto si deve obbedire in ogni caso, è giusto in ogni caso obbedire al decreto. È in ultima istanza una dottrina giusnaturalista. Norberto Bobbio sostiene che si possano conferire al giuspositivismo tre diverse accezioni: • Metodologico, che consiste nel metodo adottato dagli scienziati del diritto che ritengono di dover scindere nella formulazione delle conclusioni dai loro personali giudizi. Ma su quali presupposti metaetici si basa questo assunto? Perché si ritiene che un discorso scientifico non possa muovere da premesse normative/di valore, ovvero non può avere nulla a che fare con il male e il bene in sé per sé? Non vi è alcun criterio oggettivo per stabilire cosa sia bene e cosa sia male, dunque le proposizioni che includono i valori non hanno valenza descrittiva, non possono essere falsate, di per sé non sono né vere né false, esprimono norme, non asserzioni; in pratica dire che una cosa è buona e una cattiva, significa prescrivere d’agire in un modo piuttosto che in un altro. Una prescrizione non è vera o falsa, potrà solo essere avvertita come valida o meno. Se quindi quelle che costituiscono l’opposizione tra giusto e ingiusto non sono asserzioni ma norme, allora da norme non si potrà ricavare conclusioni con carattere descrittivo che possano essere falsata (quelle della scienza). Non posso desumere da giudizi di valore conclusioni che abbiano carattere assertivo. Tutte le scienze devono applicare il principio di avalutatività: i giudizi di valore sono insopprimibili e rilevanti nella scelta dell’oggetto MA questo non deve precludere la possibilità di prescinderne per trarre le conclusioni. ⃰⃰ Metaetica è una riflessione sul discorso che riguarda l’etica in sé, verte quindi sul discorso Bisogna tenere a mente questo discorso quando si va ad analizzare i rapporti tra queste varie accezioni del giuspositivismo, ma anche quelli con il giusnaturalismo. CREONTE, non si può considerare un giuspositivista metodologico ma sicuramente era un giuspositivista ideologico, ipotesi che non ci porta ad escludere che sia anche un giusnaturalista. Bobbio: “La prima accezione del positivismo giuridico non implica la seconda”, si può essere giuspositivisti metodologici senza per forza convergere con le idee di quelli teorici; si può ritenere di dover applicare il principio di avalutatività, senza accogliere le conclusioni alle quali sono pervenuti gli studiosi del diritto che hanno affermato di applicare questo principio (statalismo, legalismo, imperativismo). Gli scienziati del diritto del ‘900 che hanno applicato questo principio sono giunti ad alcune conclusioni peculiari, come la riduzione del diritto alla legge, all’ampia condivisione di una visione imperativistica del diritto… Queste sono caratteristiche che condividono le tesi elaborate nel ‘900 dai giuristi giuspositivisti teorici; è possibile essere giuspositivisti metodologici pervenendo a conclusioni diverse da quelle dei giuristi del ‘900; “La prima e la seconda accezione di giuspositivismo non implicano la terza”, è possibile essere dei giuspositivisti metodologici, convenire con le conclusioni alle quali sono giunti nel ‘900 i giuspositivisti teorici, senza essere dei giuspositivisti ideologici; si può adottare il metodo 10giuspostivistico e comunque non ritenere che in ogni caso si debba obbedire al diritto positivo a prescindere dai suoi contenuti; Non è possibile essere giuspositivisti ideologici se non si è anche giuspositivisti metodologici; quindi la prima e la seconda non implicano la terza, ma la terza implica la prima e la seconda. Le conclusioni di Bobbio non sono condivisibili: non è vero che l’ideologia giuspositivistica implichi il giuspositivismo metodologico o quantomeno ne supporti i presupposti. Sia le teorie giuspositivistiche ‘900, sia l’assunzione del metodo giuspositivistico, salvo rare eccezioni, si basano sulla convinzione che non esistano criteri oggettivi di bene e male (per questo scienziato deve astenersi dai valori), anche perché se è vero che i giudizi di valore sono soggettivi, da questi si potranno trarre solo conclusione non scientifiche e soggettive. Non si può dire, spacciandola per una conclusione scientifica, che una data norma è valida in un determinato ordinamento, perché è conforme ai principi di giustizia universali ed eterni, incarnati in quell’ordinamento, perché questa sarebbe una conclusione di carattere normativo, che permette di esprimere il personale punto di vista, ma nulla che possa essere vero o falso. Un altro conto è dire che dal punto di vista di un dato ordinamento e sulla base dei criteri di conoscimento della validità che in esso sono presenti, quella norma è valida in quell’ordinamento e che quindi appartiene all’ordinamento stesso. Questa conclusione è conforme al principio di avalutatività, mentre un altro conto è dire: questa è una norma valida e tu devi seguirla. Proposizioni giuridiche hanno carattere descrittivo, sono asserzioni e possono essere vere o false: “nell’ordinamento giuridico nazista, vige una data norma, che deve ritenersi valida poiché essa è conforme a criteri di conoscimento ritenuti validi nell’ordinamento stesso”; altro conto è dire “poiché quella norma è valida nell’ordinamento nazista allora ad essa è doveroso adempiere”, questa è una conclusione di carattere ideologico normativo, non descrittivo, quindi non compete allo scienziato del diritto. Partendo dall’ultimo esempio, possiamo concentrarci sui rapporti tra giuspositivismo metodologico e giuspositivismo ideologico, perché questa ultima proposizione di carattere normativo sarebbe l’espressione più evidente dell’atteggiamento di un positivista ideologico, ma una conclusione così fatta non può però che presupporre che esistano dei criteri oggettivi del bene e del male, sulla base dei quali possiamo pervenire a tale conclusione. Quindi il giuspositivismo ideologico, lungi dal presupporre il giuspositivismo metodologico, lo esclude; queste due posizioni sono opposte e incompatibili, non si può essere giuspositivisti ideologici se si è giuspositivisti metodologici, ma soprattutto se veramente ci si riconosce nel metodo giuspositivistico non si può essere d’accordo con il giuspositivismo ideologico o quanto meno non si possono spacciare come scientificamente valide le conclusioni ideologicamente giuspositivistiche alle quali si perviene. Il giuspositivista ideologico pensa di essere in grado di stabilire cosa sia giusto fare in ogni situazione, ma un tale atteggiamento non si può riconnettere agli assunti metaetici del giuspositivismo metodologico. Bobbio sembra non considerare gli assunti metaetici del giuspositivismo metodologico. Se il giuspositivismo ideologico postula l’esistenza di criteri oggettivi di giusto e ingiusto e invece quello metodologico ne presuppone l’inesistenza, allora evidentemente il primo non può implicare il secondo. Potremmo dire che quello ideologico deve ritenersi piuttosto un modo possibile del giusnaturalismo, a condizione che sia sotteso dalla convinzione che la pretesa che esso esprime abbia validità oggettiva universale. 11In conclusione Creonte è sia un giuspositivista ideologico che un giusnaturalista, che ci permette di confermare che il conflitto tra Creonte ed Antigone è in realtà il conflitto tra due diversi modi di intendere ciò che di per sé è giusto, quel che per natura è giusto. Considerazione sull’immaginario giusnaturalistico nel quale siamo cresciuti: abbiamo sentito parlare di giusnaturalismo e diritti naturali, spesso gli autori classificati come tali sono quelli del ‘600, come Hobbes, Locke, quindi tendiamo a credere che il concetto di diritto naturale sia in genere impiegato in funzione critica, cioè per mettere in discussione la validità degli ordinamenti positivi di alcune norme in nome di giudizi superiori ed eterni, come aveva fatto Antigone, ovvero i giusnaturalisti sarebbero quelli che vi si appellano contro il diritto positivo, che nel nome del diritto naturale sfidano l’autorità di questo o quel tiranno, contrapponendo alle sue norme valori di giustizia eterni. In realtà questa è solo una parte del giusnaturalismo che a volte è anche invocato per fondare la validità del diritto positivo, così da rendere possibile dire a chi viola le norme del diritto positivo, che egli non solo ha commesso un illecito ma ha anche agito ingiustamente; quindi la fondazione del diritto positivo sul diritto naturale consente di tacciare il trasgressore come colui che ha commesso un atto illecito e ingiusto, e analizzare la condotta sul piano positivo ma anche etico e morale. Fondare un ordinamento positivo sul diritto naturale, ci permette di asserirne la validità e al contempo la legittimità del potere al quale è rimessa la facoltà di fare norma. È proprio così che funziona il terzo argomento di Creonte: bisogna obbedire perché è giusto farlo, indipendentemente dal fatto che sia possibile costringere qualcuno a farlo. L’autorità, sarebbe una particolare forma di potere che esige obbedienza, indipendentemente dal fatto che si condividano le sue ragioni e dal fatto che colui al quale si chiede obbedienza possa essere costretto ad obbedire (caratteristiche peculiari dell’autorità): esige un’obbedienza incondizionata che non mette in discussione il contenuto del comando e lo si fa indipendentemente dal fatto che si possa essere costretti a farlo; l’autorità ha un ruolo rilevante nella concezione complessiva del potere, nessun ordinamento sarebbe efficace, se confidasse nella propria capacità di costringere ad obbedire. A fare le leggi sono sempre un gruppo di uomini, anche negli ordinamenti democratici, dunque non sono realistiche le dottrine che dicono che il diritto si risolve nella forza, perché non ci spiegano come colui che pone il diritto, possa acquisire la forza necessaria ad imporre l’obbedienza. Il legislatore, chiunque sia, non dispone delle risorse necessarie ad esercitare la forza per imporre ai consociati di obbedire, ma trae la forza necessaria dall’adesione spontanea di almeno una parte della comunità politica, che mette a disposizione la sua forza, affinché questi possa imporre agli altri la sua volontà; se non vi fosse nessuno disposto ad obbedire “gratuitamente”, colui che impone il diritto non riuscirebbe a dare esecuzione al suo decreto. Affinché possa esserci potere, deve esserci autorità, che è indispensabile perché colui che la detiene possa acquisire gli strumenti necessari ad esercitare la violenza sui disobbedienti. Il giusnaturalismo assolve primariamente a questa funzione, serve a conferire legittimità al legislatore, istituendone l’autorità. ROSS (realista consapevole) Alla metà del secolo XX, scrive un’opera in danese, tradotta malamente in inglese nel 1958, in italiano “Diritto e giustizia”. 12
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