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Storia del Diritto Romano:
Appunti completi riferiti al corso di storia del diritto, trattano in maniera dettagliata gli argomenti del corso. Trattano la storia del diritto romano, in maniera molto esaustiva, dalla formazione di Roma fino alla caduta dell'impero romano d'Occidente, seguendo gli snodi delle vicende che hanno attraversato moltissimi secoli di storia contribuendo allo sviluppo che ha portato alla creazione e formazione della giurisprudenza così come la conosciamo. Possono essere facilmente consultati per eventuali chiarimenti e costituiscono un valido appoggio per la preparazione dell'esame; sono stati scritti in maniera personale e "testati" per la preparazione dell'esame con ottimi risultati. Anno Accademico: 2021/2022
Dettagli appunto:
- Autore: Greta Guidetti
- Università: Università degli Studi di Pisa
- Facoltà: Giurisprudenza
- Corso: Giurisprudenza
- Esame: Storia del Diritto Romano
- Docente: Federico Procchi
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Storia del Diritto Romano Appunti di Greta Guidetti Università di Pisa Facoltà: Giurisprudenza Corso di laurea Magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza Esame: Storia del Diritto Romano Docenti: Federico Procchi A.A. 2021/2022INDICE: STORIA DEL DIRITTO ROMANO • Nascita di Roma e vita nei vari pagus • Divisione della popolazione in tribù e sviluppo del rapporto di patronato • Norme che regolavano la vita • Diritto penale nell ’età monarchica • Dalla monarchia alla repubblica • Fasti consolari o capitolini • Nuovo assetto della società • Secessioni plebee • Decemvirati legislativi • Legge delle 12 tavole • Leggi Valeriae-Horatiae • Tribuni della plebe • Pro vocatio ad popolum • 377 Licinio Stolone e Sesto Laterano • Leggi Licinie-Sestie • Campagne militari e trattati internazionali • Roma e Cartagine • Leggi Publilie-Filonis • Guerre Sannitiche • Appio Claudio Ceco • Il 300, anno della stabilizzazione • Sistema delle questiones • Cursus honorum • Controllo dei territori italici conquistati • Guerra di Pirro • Riforme giuridiche a Roma, nascita dei contratti • Tiberio Coruncanio • 218: plebiscito Claudio e II guerra punica • Processi di III-II secolo a.C. • Tiberio e Caio Sempronio Gracco • Pecunie repetunde • Caio Mario • Saturnino e Glaucia • Guerra sociale • Lucio Cornelio Silla • Pompeo • Primo triumvirato • Cesare • Ottaviano e il II triumvirato • Rimodellamento dello stato • Ottaviano Augusto • Dinastia Giulio-Claudia • Vespasiano • Casata Flavia • Età aurea • Età imperatori adottivi • Dinastia dei Severi • Diocleziano • Vari periodi di anarchia • Costantino • Cadute degli imperi di oriente e occidente Secondo una tradizione storica Roma sarebbe stata fondata alla metà dell’ottavo secolo a.C., supportata da ritrovamenti archeologici. Racconto nascita Si narra che Enea in fuga da Troia abbia girovagato per il Mediteranno approdando infine sulle sponde del Lazio, dove trovò un elemento autoctono, una popolazione che già viveva in quelle terre: i latini guidati dal re Latino. Dopo la tensione e lo scontro iniziale tra l’elemento locale e quello straniero, si raggiunse un accordo per cui Enea avrebbe sposato la figlia del re Latino, Lavinia, e insieme avrebbero fondato una nuova città, Lavinia. Il figlio di Enea, Ascanio, a sua volta si sarebbe unito in matrimonio con una donna latina e i due avrebbero fondato una nuova città che avrebbero chiamato Albalonga. Su essa avrebbe regnato la discendenza di Ascanio per anni, finché sarebbe diventato re di Albaloga Numitore. A questo punto Albalonga è governata da Numitore, che ha un fratello, Amulio, che lo spodesta. Amulio però ottiene un oracolo negativo. Gli viene predetto da un oracolo che lui stesso è destinato ad essere spodestato dalla progenie del fratello, cioè dalla successione di Numitore. Egli ha una figlia, Rea Silvia, e per evitare che ella possa partorire una discendenza, viene obbligata a diventare una vestale. Le vestali a Roma antica avevano un ruolo religioso e giuridico ed erano obbligate alla castità. La vestale che perde la castità é condannata a morte. Così pensa di essersi garantito la salvezza contro l’oracolo negativo. Rea Silvia andando a prendere l’acqua per il tempio incontra Marte sotto fattezze umane. I due hanno un convegno amoroso e dall’unione nascono due gemelli, la cosa è da tenere segreta. Dopo il parto i bambini sono abbandonati: secondo la tradizione furono lasciati in una cesta di vimini sul Tevere, poi salvati e allattati da una lupa. Ormai grandi spodestano lo zio Amulio, cercando di rimettere sul trono di Albalonga il nonno Numitore. Nel racconto di Livio, insieme fondano una nuova città seguendo il rituale etrusco: tracciano i confini con un aratro trainato da buoi. Al momento della nascita della città però nacque un conflitto tra i fratelli, all’esito del quale Romolo uccise Remo e in suo ricordo battezzò Roma la nuova città. Gli storici antichi parlano per metafore, quando leggiamo il loro racconto dobbiamo essere consapevoli del fatto che scrivono per un pubblico abituato a leggere tra esse. La lettura e lo studio delle fonti storiche antiche impongono all’interprete di saper cogliere individuare e sciogliere le metafore, solo così potremo capire qual’è il reale messaggio che l’autore ci vuole mandare. Ripercorrendo il racconto ci soffermiamo sul fatto che esso è segnato da un marcato dualismo: il numero due ricorre in continuazione. Enea arriva sulle sponde del Lazio, ma qui ci sono i latini; vediamo le due componenti: una autoctona e una avventizia. Per risolvere il contrasto che si crea, decidono di proclamare due matrimoni e la fondazione di due nuove città. Le cose sono stabili fino all’arrivo dei due gemelli che collaborano nella restaurazione dell’ordine precedente e nella creazione di una nuova città. La fondazione di Roma, infine, coincide con un omicidio. L’archeologia ci dice che il Lazio agreste era sicuramente già abitato sul finire del decimo secolo e ampiamente popolato nel nono secolo. La realtà pre civica del Lazio era popolata di Pagi, cioè villaggi, sparsi sul territorio agricolo laziale ed abitati da gruppi familiari estesi che vivono sotto legida, cioè sotto il comando di un capo villaggio, che è il pater familias. Questa è un’antica parola in latino pre civico, si capisce dalla terminazione del genitivo in AS, che in latino aureo sarebbe in AE, che costituisce la forma più antica di genitivo. Il padre di famiglia è il più antico, anziano ascendente comune di tutti coloro che vivono nel pagus, è il capostipite comune degli abitanti del pagus, che sono tutti suoi discendenti e sottoposti alla sua autorità. Nell’epoca più antica i vari pagi sparsi nel Lazio non hanno contatto tra di loro, ogni villaggio è autonomo, indipendente e isolato. Gli abitanti del pagus sono tutti imparentati tra di loro perché le famiglie nel villaggio si creano mediante vincoli endogamici, cioè l’unione sessuale avviene all’interno della propria famiglia, sono unioni tra parenti. Lo sappiamo anche grazie all’archeologia perché figli di relazioni tra consanguinei, aumentano esponenzialmente la possibilità di malformazioni attraverso le generazioni. Sono state infatti trovate molte sepolture di feti abortiti o con malformazioni; questo vale per la prima fase. A un certo punto inizia a svilupparsi il fenomeno dei Raminghi che girano per le campagne alla ricerca di chi possa offrire loro cibo e un giaciglio in cambio di aiuto nel lavoro. I villaggi sono costruiti su un’economia di sussistenza, cioè si alleva e si coltiva per ottenere lo stretto necessario per il proprio sostentamento, se arrivano braccia in più e aumenta il territorio coltivato, si potrà sostentare qualcun altro. I raminghi hanno interesse a fermarsi dentro i pagi, i cui abitanti, allo stesso tempo, hanno interesse a farli fermare sia perché si aumenta la forza lavoro, ma anche perché arriva sangue nuovo: la sopravvivenza del pagus diventa legata all’abbandono dell’endogamia. In una seconda fase della realtà pre civica nei pagi abbiamo due componenti: quella originaria di tutti coloro che sono legati da vincolo di discendenza dal pater familias; e gli avventizi cioè coloro che sono ospitati e vivono nel pagus ma non hanno legami di sangue. Le regole di vita nel pagus coincidono con gli antichi usi e costumi di tale famiglia e sono amministrate dal pater familias, che è il primo depositario di tali tradizioni. Si mantenne sempre chiara la differenza tra chi apparteneva alle famiglie di origine e chi no. Fù inoltre chiaro che il gruppo avventizio accettava di vivere nel pagus adattandosi alle sue antiche tradizioni famigliari e alla potestà dal pater familias (che era vero pater solo di alcuni, ma questo fatto non diminuiva la sua autorità). Alla fine del nono secolo a.C., e agli inizi dell’ottavo secolo a.C., iniziarono nel Lazio agreste scorrerie di bande armate che avevano come obiettivo la razzia e la distruzione dei pagi. Entravano nei pagi per portare via animali e prodotti, incendiando i villaggi, come sappiamo dall’archeologia. Ci si rese conto che assaltare, depredare e distruggere un pagus è facile e basta un esercito di 100 uomini specializzati in tale attività. Era un problema di tutti i pagi. Venne allora proposta una lega, un accordo: quando un pagus è attaccato, in suo aiuto giungeranno tutti i pagi vicini e così potrà contare su un esercito dato dall’unione di uomini di diversi pagi. Si costituisce quindi un esercito comune per aiutare i pagi in caso d’emergenza, e si stabilisce che i vari pater familias devono riunirsi in assemblea per nominare un generale che avrà il potere di comandare tutto l’esercito per il tempo necessario a vincere la guerra. Cacciato il nemico ognuno ritornerà al suo pagus sotto il comando del proprio pater familias. Verso la metà dell’ottavo secolo a.C., ci fu un’ulteriore evoluzione e i singoli capi villaggio decisero che i vantaggi di un’alleanza stabile erano molto più appetibili di quelli di un’alleanza temporanea. Decisero di abbandonare i pagus per riunirsi in un’unica città, che prende il nome di Roma. La nuova città-stato, appena fondata alla meta dell’ottavo secolo a.C., necessita regole e indicazioni per regolamentare la vita dei cittadini confluiti li da pagus differenti. Roma antica costruisce le regole mutuando e riproponendo gli schemi della tradizione pre civica, che ci dice che dentro ogni pagus c’era la componente familiare delle origini e quella avventizia. La prima avrebbe dato luogo alle gentes, ogni gens combacerebbe con un nucleo familiare allargato di un pagus delle origini, e l’insieme delle gentes avrebbe costituito il nucleo di quelli che si fecero chiamare patrizi, perché accomunati da una discendenza dal pater. Questo gruppo nella città si sarebbe distinto dal gruppo di quelli che un pater non lo avevano e tale gruppo avrebbe costituito i plebei. Entrambi avrebbero collaborato su base paritaria alla creazione della nuova città. Venne inoltre riproposta l’assemblea dei pater familias, cioè l’assemblea dei più antichi ascendenti comuni dei singoli pagi, è un’assemblea di anziani. Anziano in latino si dice senex, tale assemblea costituisce il senato romano, di componente esclusivamente patrizia. I senatori sono detti Patres conscripti (perché figli dell’antica assemblea dei padri di famiglia). Tale assemblea era abituata a nominare un capo comune con poteri limitati nel tempo, per far fronte ai bisogni della guerra, tale senato nomina però un capo a vita, cioè un Rex che regnerà fino alla sua morte, alla quale “auspica redeunt ad patres”, cioè gli auspici tornano ai patres. Nell’interregno tra la morte di un Rex e la nomina di quello dopo i poteri li ha il senato. La matrice prima del diritto costituzionale monarchico affonda le proprie radici nella realtà precivica dei pagi. Prevede a capo dello stato un Rex che ha pieni poteri a vita e incarna in se il sommo potere militare, il sommo potere religioso, il sommo potere giurisdizionale, il sommo potere amministrativo e il sommo potere normativo. Il re romano è quindi sommo generale dell’esercito, sommo sacerdote, supremo giudice nei processi civili e penali, supremo amministratore della città e supremo legislatore, tutto questo fino alla sua morte quando il senato sceglierà al proprio interno un nuovo rex. Secondo la tradizione ciò sarebbe avvenuto sette volte in 245 anni, ma è frutto di un calcolo matematico ed è possibile che i re siano stati più di sette. • Romolo • Numa Pompilio • Tullio Ostilio • Anco Marcio • Tarquinio prisco • Servio Tullio • Tarquinio il superbo Nella monarchia romana troviamo due momenti distinti: il primo in cui il predominio su Roma è espressione di gentes patrizie di stirpe latina o sabina, come capiamo dai primi quattro nomi, e una seconda fase in cui il predominio politico della città è assunto da famiglie di stirpe etrusca. Tale distinzione in età monarchica non poggia solo sulla differenza etnografica dei gruppi dirigenti ma esprime un diverso approccio della città-stato alla propria politica economica. La prima fase, fase Latino-Sabina, ripropose un assetto economico simile a quello dell’epoca precivica con un’economia di sussistenza, la città-stato ha come obiettivo di produrre ciò che garantisce il sostentamento dei cittadini. La seconda fase segna l’ingresso a Roma di un’economia di mercato, in cui l’obiettivo è una sovrapproduzione perché una parte del prodotto dovrà andare in un mercato di scambio con soggetti diversi da Roma. La nascita di un’economia di mercato portò con se la necessità di creare una moneta e venne a duplicare il concetto romano di ricchezza, che arcaicamente si riferiva alle ricchezze immobiliari: un pagus era tanto più ricco quanto più estese erano le terre che poteva coltivare e i pascoli dove poteva portare gli animali. Roma è fondata su un’idea di ricchezza immobiliare, quando inizia la seconda fase della monarchia etrusca comincia ad affacciarsi a Roma una nuova idea di ricchezza, cioè quella mobiliare, fatta dei redditi dell’economia di mercato. Nel mondo dei pagi le terre (cioè la ricchezza) erano del gruppo familiare che lo aveva costituto, fu sempre chiaro che le terre erano proprietà del pater familias come esponente del gruppo familiare. Le terre sono dei patrizi, i plebei possono lavorarle e trarne dei vantaggi. I plebei non avendo terre non sono ricchi, e ricchi mai diventeranno perché terra non potranno mai avere. Quando si introduce l’economia di mercato, non potranno comunque essere ricchi dal punto di vista mobiliare, ma potranno arricchirsi con i commerci, sviluppando una loro forma di autonomia. Fino da Romolo i re avrebbero usato il loro potere di sommi legislatori per dettare regole per la nuova città-stato. Nel fare ciò i re avrebbero adottato delle LEGES REGIAE, cioè leggi regali che non corrispondono in alcun modo al moderno concetto di legge. Per noi la legge è frutto di un deliberato assembleale, le leggi dei re non sono frutto di un’assemblea, o di una mera volontà reale, ma costituiscono il recupero in chiave urbana delle antiche tradizioni dei pagi, le quali erano le antiche tradizioni pre civiche delle gentes patrizie. Queste antiche tradizioni non di tutti cittadini ma dei soli patrizi, passano alla storia come MORES, mos al singolare, cioè gli antichi usi e costumi patrizi, che affondano le loro radici nella tradizione pre civica, e costituiscono la prima base dello ius civile della Roma antica. Per la tradizione Romolo prese atto di tre matrici etniche diverse all’interno delle gentes romane e suddivise la popolazione in tre tribù: Ramnes, Tities e Luceres. Una componente latina, una sabina e una etrusca, la popolazione fu divisa su base etnica, ogni tribù al suo interno divisa su base territoriale in dieci curie, ognuna suddivisa all’interno su base territoriale in dieci decurie. Tre tribù, su base etnica Trenta curie, su base territoriale Trecento decurie, su base territoriale Questa sarebbe stata la struttura della prima assemblea popolare romana che avrebbe preso il nome di comizio curiato, in latino comitium curiatum. Al più antico comizio curiato sarebbero stati affidati alcuni compiti fondamentali: ad esempio le curie si occupavano del reclutamento dell’esercito, e ogni decuria avrebbe dovuto fornire a tale dieci fanti e un cavaliere, costituendo un esercito di 3000 fanti e 300 cavalieri; inoltre svolgeva attività importantissime nella sfera del diritto pubblico-costituzionale e privato. Il nuovo re è eletto dal senato ma non ha pieni poteri fino a quando non è presentato al popolo riunito nel comizio curiato. Davanti a tale assemblea popolare si fa una delle prime forme di testamento, il popolo che fa parte di tale comizio svolge un ruolo di testimonianza nei passaggi di potestà familiare. Le leges regie non sono sovrapponibili al moderno concetto di legge né come frutto di una delibera assembleare, né come impositiva di un nuovo obbligo, perché si fondano su qualcosa di precedente e antico, cioè gli antichi usi e i costumi pre civici gentilizi. Fin dal primo re Romolo si sarebbero fatte le leggi regie, che avrebbero recepito antichi mores gentilizi e anche disegnato un nuovo assetto per la città di Roma appena fondata. Romolo avrebbe preso atto dell’esistenza di tre gruppi etnici dividendo la popolazione in tre tribù, trenta curie e trecento decurie; dividendola inoltre in patrizi e plebei, recependo questa divisione dagli assetti pre civici. Divise i compiti riservando ai patrizi i ruoli di magistrati, sacerdoti e giudici; attribuendo invece ai plebei il lavoro nei campi. La differenziazione non va interpretata in chiave discriminatoria, ma come mutuata da quella che era la situazione precedente, la perpetuazione di uno schema dualistico pre civico in cui la pacifica convivenza e quindi la stabilità sociale, sono assicurate dal fatto che Romolo diede ad ogni plebeo un patrizio di riferimento e vincolò tanto gli uni quanto gli altri a vincoli reciproci di patronato. Questi rapporti sono quelli in cui un soggetto assume la veste di patronus a garanzia di un altro soggetto. Etimologia di patrono è strettamente legata alla parola patres. È un rapporto di vincolo reciproco che prevede obblighi per patrizi e a favore dei plebei (patronato patrizio), ma anche ordini dei plebei nei confronti del proprio patrizio di riferimento (patronato patrizio); è un rapporto biunivoco. Nella società pre civica questo rapporto si instaurava nei singoli pagi, tra il gruppo gentilizio del pagus e gli avventizi che ne entravano a far parte. Il rapporto di patronato prevede un dovere di mutuo soccorso, reciproco, per cui ad esempio nel momento in cui un plebeo ha dei problemi con la legge e viene citato in giudizio, potrà andare a chiedere aiuto al suo patrizio di riferimento che non potrà rifiutarsi di aiutarlo; è un rapporto sacro e ancestrale, il rifiuto del soccorso ad una richiesta di patronato rappresenta un crimine. Se per ragioni di necessità pratica, un patrizio chiede aiuto a uno dei suoi plebei, lui non potrà negargli il suo aiuto, perché il patronato si instaura nell’ambito di una relazione biunivoca, che porta entrambe le parti a non poter ignorare le richieste dell’altra. Nel mondo del diritto dell’età monarchica troviamo i mores, le leges regie, ma anche altri fattori che regolano il vivere comune, come: il FAS o il NEFAS, con il primo gli antichi indicano ciò che è lecito secondo le regole religiose, quanto è lecito perché gradito agli dei; il secondo è l’opposto, cioè ciò che è illecito perché sgradito e non consentito dagli dei, che potrebbe attirare sulla comunità la collera divina, bisogna avere cura di tenere comportamenti graditi agli dei ed evitare gli atteggiamenti sgraditi, rimanendo all’interno del FAS, ed evitando il NEFAS. Nell’epoca arcaica, i cittadini romani non percepiscono la netta differenza della natura dei divieti, per noi moderni è chiaro che nella nostra vita ci sono tanti doveri di diversa natura, ad esempio precetti religiosi, etici o leggi dello stato italiano, da ciò deriva che ogni disguido avrà una conseguenza diversa. A Roma in età arcaica, tutte le disposizioni sono sullo stesso piano e vincolano il nostro agire di cittadini sullo stesso piano; tutte queste disposizioni sono diritto per l’uomo arcaico, non c’è una graduazione di rilevanza. La portata degli antichi mores è la medesima delle leggi regie, come quella del FAS-NEFAS, che vanno a costituire il piano dello IUS ANTIICUUM, cioè il piano del diritto dell’epoca arcaica. Se la sensibilità romana arcaica non distingue il diritto da quella che noi chiamiamo religione, è facile capire l’importanza che assumono a Roma i collegi sacerdotali, in quanto rappresentano un fenomeno sia religioso che giuridico. I collegi di Roma antica sono molti, ad esempio le vestali, i tre più importanti giuridicamente sono: il collegio pontificale o collegio dei pontefici, il collegio degli auguri e il collegio dei Feziali. Il collegio dei pontefici è antichissimo, fu fondato o da Romolo o da Numa Pompilio, risale alle origini della monarchia latino-sabina, si compone di cinque membri (tutti patrizi), è presieduto da un pontifex maximus (pontefice massimo), ed ha competenza nella: • Elaborazione • Interpretazione • Applicazione di norme giuridiche; quando un rex vuole fare una nuova legge regia, si consulta con i pontefici; a loro ci si rivolge se c’è un dubbio interpretativo su un mos o quando dobbiamo sapere se si applica o meno una norma. Il collegio degli auguri, antichissimo, è costituito dal primo o dal secondo re, si compone anch’esso di cinque membri; sono sacerdoti che guardando il volo degli uccelli e ne traggono un Augurium, cioè l’interrogazione delle divinità sulla liceità o meno di una determinata condotta umana. Si vuole costruire un tempio in un luogo, per sapere se un luogo è adatto o no si interroga questo collegio, per essere certi di agire nel FAS e non nel NEFAS: il collegio scruterà il volo degli uccelli e darà un responso cioè l’augurium, che potrà essere positivo o negativo. Il collegio dei feziali, è verosimilmente di poco più giovane rispetto agli altri, ma dovette comunque essere istituito nella fase arcaica della monarchia latino-sabina, constava di venti membri ed aveva fondamentali competenze nell’ambito di quello che noi oggi moderni chiameremmo il diritto internazionale pubblico, avevano quindi competenze nei rapporti tra stati, interrogavano le divinità sul comportamento che Roma doveva tenere nell’ambito delle sue relazioni internazionale cioè con le altre comunità straniere. Svolgono un ruolo fondamentale se c’è da fare una dichiarazione di guerra o un trattato internazionale. La struttura politica realizzata da Romolo con la costituzione dell’assemblea popolare che va sotto il nome di comizio curiato, dovette rivestire fondamentale importanza fino all’epoca della monarchia etrusca. Il secondo re etrusco, Servio Tullio, dette corso a una riforma che passa sotto il nome di riforma serviana dell’esercito, si crea una nuova assemblea popolare per reclutare l’esercito in modo differente rispetto a quanto si faceva, reclutato su base curiata, che fa si che ogni unità territoriale debba dare lo stesso numero di uomini all’esercito, un cavaliere e dieci fanti. Servio Tullio stabilisce una forma di reclutamento su base timocratica, cioè sulla base del censo, delle ricchezze immobiliari; si crea una nuova forma di assemblea, un nuovo comizio (cumitium: andare tutti insieme), cioè il comizio centuriato. La sua composizione suddivide il popolo in centurie, così dette perché in origine ognuna era formata da cento uomini, suddivise su base censitaria: in cima al comizio centuriato c’erano diciotto centurie di cavalieri, di equites, nove di iuniores, cioè uomini in armi tra 18 e 45 anni, e nove di seniores, cioè uomini in armi tra i 45 e i 60 anni. Gli equites sono i più ricchi tra i ricchi dal punto di vista immobiliare; sono talmente ricchi da potersi permettere non solo l’armatura del cavaliere ma addirittura un cavallo e di sfamarlo, troviamo poi i ricchissimi con ottanta centurie nella prima classe tra iuniores e seniores (quaranta e quaranta), poi venti centurie di seconda classe, venti centurie di terza classe, venti di quarta classe, trenta centurie di quinta classe e poi cinque centurie ausiliarie, quattro composte da artigiani e musici e una di capite censi, cioè coloro che sono così poveri da far coincidere il loro censo con il loro capo, non possiedono altro oltre se stessi. Ci sono in totale 193 centurie. Il meccanismo di reclutamento dell’esercito è un meccanismo centuriato, studiato per far si che chi è più ricco dal punto di vista immobiliare, fornisca un maggiore contributo nella formazione dell’esercito (le due classi più ricche, fanno più della metà dell’esercito). Per le famiglie meno ricche dare un contributo all’esercito significa avere meno braccia che lavorino per portare il cibo a casa; il re capisce le differenze di impatto sulle classi e rivoluziona il reclutamento. IL DIRITTO PENALE nell’età monarchica (diritto pubblico) È difficile trovare una definizione che valga sia per la situazione di Roma antica, che per la situazione attuale, perché il diritto moderno si basa sul principio di legalità, fondato solo nell’800 da Faverbach, che elaborò tale principio espresso da una frase in latino “Nullum crimen, nulla poena, sine previa lege penali scritta et certa”, ovvero non può essere elevata nessuna imputazione, né inflitta nessuna pena senza una precedente legge che chiarisca per iscritto in modo chiaro e inequivocabile, l’oggetto del divieto e la sanzione. La legge penale non può che disporre per l’avvenire, ma non per gli avvenimenti ormai passati. La mentalità romana è quella del “bonus vir”, tu ti devi comportare da vir bonus, poi si possono fare dei processi per vedere se ti sei comportato da vir bonus oppure no. A Roma antica esisterà una forma di processo penale che richiama in qualche modo i principi odierni di diritto penale, ma che si affermerà a Roma solo a partire dall’123 a.c. Il diritto penale va definito come la branca del diritto pubblico che si occupa di garantire tutela ai beni giuridici fondamentali per la sopravvivenza di una comunità, mediante l’applicazione della sanzione più afflittiva di tutte, cioè mediante sanzioni che possono arrivare ad intaccare l’integrità fisica del condannato, cioè a ferire, colpire o uccidere il condannato. In epoca pre civica, le aggressioni più violente, capaci di mettere in discussione la sopravvivenza o meno del gruppo familiare allargato, venivano affidate alla vendetta privata indiscriminata, si dava cioè, al gruppo familiare del soggetto offeso, la possibilità di farsi giustizia mediante una reazione diretta, autonoma e senza limiti. Questa è la mentalità primordiale, una logica tribale, che si trasla anche nelle associazioni criminose organizzate, ad esempio la mentalità mafiosa: l’offesa è stata fatta alla famiglia e ciò che la ripaga lo decide la famiglia. La nascita di Roma porta con sé un enorme progresso giuridico, cioè l’abbandono della vendetta privata indiscriminata a favore della vendetta privata regolamentata dallo stato, regolamentata per legge, cioè quello che comunemente si chiama la Legge del taglione; lo stato continua ad affidare la reazione al soggetto offeso e al suo gruppo familiare, ma vincola l’entità della vendetta a canoni di proporzionalità. La reazione deve essere uguale e contraria all’offesa ricevuta. Nessuno è obbligato alla reazione, è solo un limite massimo, che se venisse superato porterebbe alla punizione pubblica. Affianco ad esso si costituì anche una forma di giurisdizione penale affidata o direttamente al rex o a suoi magistrati ausiliari. Il re come sommo giudice penale può operare in due vesti: è giudice o in qualità di sommo sacerdote, per i reati che offendono le divinità, o in qualità di sommo comandante militare. Nel primo caso il re agisce come garante della proficua serenità nel rapporto tra uomini e dei, il re è cioè garante della Pax deorum, dei pacifici rapporti con la divinità. Le offese degli uomini alle divinità, minano tale pace e spetta al re stabilire quali siano le sanzioni, le punizioni atte a ripristinarla; in quest’ottica la giurisdizione del rex come sommo sacerdote, si attua nei confronti di scelera expiabilia e scelera inexpiabilia: cioè offese religiose che possono essere espiate mediante sacrifici e offese religiose che invece sono talmente gravi da dover essere necessariamente lavate con il sacrificio più grave di tutti cioè la pena di morte. Un esempio del reato meno grave era la vedova che si risposava dopo un periodo inferiore di un anno dalla morte del marito, che si sarebbe risolto con un sacrificio guidato dal rex; una violazione grave, consisteva invece ad esempio nella violazione del rapporto di patronato, che va ad offendere le divinità, minando la pace, e l’unico modo per ristabilirla è che il soggetto paghi con la sua vita; a questo si aggiungeva la sacertà cioè un procedimento attraverso il quale il condannato era espulso dalla società e consacrato alla divinità che aveva offeso, mediante la formula “sia dichiarato homo sacer”, essendo consacrato alla divinità che ha offeso, chiunque lo uccida non compie un delitto di omicidio, quindi un atto illecito, ma compie un sacrificio gradito agli dei. Come sommo comandante dell’esercito, ha potere di processare e mettere a morte i disertori, i soldati che non seguono gli ordini, la sentinella che si addormenta durante il turno di guardia, ovvero gli illeciti penali di natura militare. Rex come garante della pace deorum non entra in contrasto con i collegi sacerdotali perché è sommo tutto, anche sommo sacerdote, ha il potere di giudicare quindi anche comportamenti illeciti dal punto di vista religioso. È mediatore tra gli uomini e gli dei, come una sorta di semi divinità; gli altri sacerdoti sono solo interpreti della volontà divina mentre il re è anche garante dello stato di grazia con gli dei, e conosce il modo per ripristinarlo qualora sia turbato. Siccome il re è sommo sacerdote e ha giurisdizione sui crimini religiosi, allo stesso modo essendo sommo generale avrà giurisdizione sugli illeciti militari, (diserzione, defezione cioè quando un militare passa a combattere con l’esercito nemico), questi illeciti sono giustiziati direttamente dal Rex mediante coercitio, cioè in via coercitiva. In tempo di pace ci si può permettere un accertamento accurato della responsabilità, interrogando anche testimoni, ovvero c’è tempo di fare un lungo processo; in guerra di fronte all’evidenza della prova, dato che non c’è tempo, basta un testimone per far scattare la giustizia militare cioè la coercizione: quando un uomo muove un’accusa nei confronti di un altro, a condizione che ci sia almeno un testimone dell’illecito, il sommo comandante militare ordina che l’uomo sia giustiziato in pubblico, cioè davanti all’esercito. La pena giudiziaria coercitiva si espone più facilmente all’errore giudiziario, ma in questo caso prevale l’interesse all’immediata ed esemplare punizione del colpevole Cuestores parricidi, si occupano delle indagini per l’uccisione di un pari cioè un uomo libero, per l’omicidio, fanno già differenza tra colposo e doloso. Accertando l’intenzione del comportamento di colui che causa la morte di un uomo, ci accorgiamo che può essere volontario, quindi commesso con dolo, scatta la regola antica della vendetta privata: i magistrati accertano il responsabile e danno la possibilità ai famigliari della vittima di fare giustizia. Se invece manca la volontarietà, si stabilisce che i parenti non possano dar corso alla vendetta privata e la questione deve essere chiusa con un sacrificio la cui natura si discute molto in dottrina, se debba essere espiatoria, risarcitoria o entrambe. Fonti antiche dicono che il responsabile d’omicidio colposo deve sacrificare alla famiglia dell’offeso un ariete cioè l’animale di maggior valore; secondo alcuni è un vero sacrificio religioso per ripristinare la concordia con le divinità della famiglia offesa (lari e penati), sarebbe quindi di natura espiatoria, per altri ci si deve dotare di un ariete da consegnare alla famiglia dell’ucciso come risarcimento economico, lo sacrifichi nel senso che te ne privi e lo dai in dono alla famiglia che ha perso un affetto e delle mani per lavorare, gli paghi il massimo risarcimento del danno possibile. Ci sono poi i duoviri perduellionis (magistrati ausiliari) cioè il collegio di due uomini competenti per giudicare i casi di alto tradimento. Passaggio dalla monarchia alla repubblica Avvenuto nel 509 a.C., tuttavia non esiste unità di vedute sul modo in cui questo passaggio si verifica. Esistono tante teorie, ma se volessimo schematizzare, possiamo dire che ci sono due differenti filoni di teorie principali per spiegare tale passaggio: si contrappongono le teorie del passaggio brusco e repentino, e quelle del passaggio lento e graduale. Il primo filone poggia le basi sul racconto degli storici antichi, secondo cui infatti, la cacciata della famiglia dei Tarquini e l’instaurazione del nuovo ordine repubblicano sarebbe avvenuta nel volgere di poche ore come reazione ad un atto gravissimo fatto dal figlio del sovrano, Sesto Tarquinio. A Roma c’era una nobile, Lucrezia, donna bellissima e di virtù morale pari alla bellezza, che era sposa di un generale del sovrano. Sesto Tarquinio avrebbe corteggiato invano Lucrezia, senza successo e approfittando del fatto che il marito era lontano da Roma, a capo dell’esercito a combattere per il popolo, le reca oltraggio. Al rientro del marito a Roma, la vicenda avrebbe generato lo sdegno della nobiltà romana, che per la componente latino-sabina, non aveva di buon occhio i sovrani etruschi e in generale il regno dell’ultimo dei Tarquini, questo episodio di violenza fu l’ultima goccia. Il marito di Lucrezia con l’appoggio del popolo avrebbe rovesciato la monarchia, costringendo i Tarquini alla fuga. Questo leggiamo nelle fonti antiche. Spiegazione totalmente diversa per tale passaggio, venne affermandosi nella temperie di una corrente di pensiero che si affermò tra il 18 e il 19 secolo. Nell’ambito delle scienze naturalistiche, alla fine del ‘700, si maturò la riflessione evoluzionista di un biologo, Lamarck (metà 18 secolo, pubblica alla fine del ‘700) tratta l’evoluzione della giraffa, che originariamente aveva collo normale, perché poteva nutrirsi con cespugli bassi, cambiando l’ambiente si sarebbe adattata ad esso, sviluppando progressivamente un collo sempre più lungo, c’è un punto di partenza e arrivo con varie configurazioni intermedie con un collo gradualmente sempre più lungo; queste idee naturalistiche sono riprese e strutturate più completamente da Darwin che le perfeziona e le estende proponendo di applicare tale il metodo al di fuori delle scienze naturali e biologiche. Elabora una metodologia nel campo delle scienze naturali per poi traslarla alle scienze sociali; si origina una corrente che è l’evoluzionismo sociale o nel campo delle esperienze giuridiche, evoluzionismo positivista. Esisterebbero precise leggi di natura a presidiare qualunque forma di evoluzione e il condensato ultimo di tale ragionamento sarebbe che le leggi evoluzioniste impediscono di pensare che si possa essere passati dal punto di partenza a quello di arrivo senza approdi intermedi. Esistono quindi regole ineludibili per le quali qualunque evoluzione prevede un lento sviluppo attraverso tappe intermedie. Quando si sviluppa la corrente filosofica dell’evoluzionismo positivista, la spiegazione tradizionale del passaggio da monarchia alla repubblica non è accettata, perché avrebbe ignorato il passaggio dalle forme intermedie e il tutto sarebbe successo dalla sera alla mattina. Si sottopone la storia della nascita della repubblica romana a una profonda rivoluzione, approfondendo gli studi ed estendendoli anche ad altre popolazioni che nello stesso tempo abitavano il centro dell’Italia, e si scopre che presso altre popolazioni coeve e vicine a Roma è attestato un momento di reggenza da parte di due soggetti con poteri ineguali. Sulla base di ciò l’evoluzionismo viene a postulare l’idea di un passaggio lento e graduale dalla costituzione monarchica alla forma costituzionale repubblicana. Quest’ultima sarebbe iniziata con una forma monarchica pura cioè con a capo un sommo Rex con sommi poteri in tutti i campi per arrivare nel 509 a.c. ad avere a capo dello stato, non un unico Rex con sommi poteri senza limiti ma una coppia di consoli aventi pari poteri nel limite temporale di un anno, cioè una diarchia perfetta, il comando dei due uomini perfetto, cioè il potere dell’uno è identico al potere dell’altro, nessuno dei due ne ha di più. Nel mezzo ci sarebbe stato un più o meno lungo periodo intermedio di diarchia imperfetta, cioè con il progredire dell’età monarchica lo stato cittadino romano sarebbe divenuto sempre più complesso e materialmente il Rex non sarebbe più riuscito da solo a fronteggiare tutte le sue prerogative. Con lo sviluppo di Roma un solo uomo al comando non basta più, se ne rende conto e così si cerca un aiutante, viene nominato un vice, un attendente, a un certo punto a capo di Roma ci sarebbe stata una diarchia imperfetta cioè un governo di due uomini, di cui uno era sottoposto all’altro. L’evoluzione positivista dice che il passaggio si sarebbe mosso da un punto di monarchia assoluta verso alcuni anni di diarchia imperfetta per arrivare a capire che la forma costituzionale più giusta era quella di una diarchia perfetta. Tale chiave di lettura era poi confermata dagli storici evoluzionisti, mediante un confronto con l’epoca repubblicana: la repubblica romana conosce uno strumento d’emergenza da usare nel sommo pericolo, cioè la nomina a capo dello stato di un dictator. Secondo un antico rituale, in un momento preciso della notte che precede il canto degli uccelli e del gallo, in piedi e rivolto ad oriente è nominato il dittatore, che seguendo questo rituale, deve immediatamente scegliere il suo maestro di cavalleria, nominare il suo magister equituum, per non decadere, tale maestro è il suo secondo cioè il suo vice, così che nei momenti di rischio politico per Roma, temporaneamente al governo si formerà la diarchia imperfetta. Quando Roma repubblicana si trova in pericolo riesuma una forma costituzionale che è parte della sua tradizione cioè la diarchia imperfetta. La persistenza in epoca repubblicana del modello della diarchia imperfetta rappresentato dal binomio dictator, magister equituum, sarebbe secondo gli studiosi evoluzionisti, la riprova di una tappa intermedia nel passaggio dalla forza monarchica a quella repubblicana. In qualsiasi modo sia andata, i Tarquini da Roma sono cacciati e termina li la monarchia etrusca, cambia la forma di stato e non ci sono più i Rex a capo dello stato, manca quindi il garante dei rapporti di patronato. Tutta la pacifica convivenza dei cittadini romani fu costruita mediante una rigida spaccatura sociale tra patrizi e plebei e un rigido affidamento dei compiti degli uni agli altri e l’equilibrio era regolato da rapporti di patronato, garantiti dal Rex che ne supervisiona la correttezza; nell’età monarchica il garante del punto di equilibrio sociale tra patrizi e plebei era quindi il re, quando il Rex non c’è più manca il garante. È stato ritrovato un documento epigrafico, inciso su roccia, conosciuto come Fasti consolari o Fasti capitolini, perché custoditi in Campidoglio. Antichi misurano il tempo in maniera diversa, con la nascita della repubblica romana e la decisione di mettere il potere in mano ai consoli, si decise di contare il passare degli anni, contando l’avvicendarsi dei consolati, cioè una magistratura eponima, ovvero una magistratura che mette il proprio nome sopra quell’anno. Per un latino dire nell’anno del consolato di, vuol dire identificare perfettamente l’anno. Noi disponiamo di tale documento epigrafico della fine dell’epoca repubblicana che rappresenta una lista delle somme magistrature che anno dopo anno sono state a capo della repubblica romana. L’analisi e la lettura dei fasti consolari è interessante ed istruttiva. Se guardiamo i fasti consolari notiamo che dal 509 al 451 a.C. troviamo ogni anno due consoli a capo dello stato, nel 451-450 a.C. ci sono invece dieci nominativi, così come nell’anno successivo, nel 449 a.C. si ripristinano le coppie consolari, che permangono fino al 446, dal 445 al 377 a.C. si alternano coppie consolari con collegi di tribuni militum consulari potestate cioè tribuni militari investiti degli stessi poteri dei consoli, in numero variabile da tre a otto, dal 377 in poi si ritorna stabilmente a coppie consolari, ovvero troviamo stabilmente due nomi. Nei primissimi anni della repubblica a capo dello stato nei fasti consolari leggiamo una coppia di consoli di cui uno è patrizio e l’altro plebeo, questa informazione ci colpisce perché i plebei dovranno lottare due secoli sostanzialmente, per arrivare a tale risultato, la perfetta parità consolare tra patrizi e plebei, risultato che si otterrà grazie a grandi scontri politici e sociali solamente intorno all’anno 300 a.C. Per spiegare la presenza di nomi plebei nei primi anni di governo consolare, ci sono due grandi teorie: la prima, riconducibile ad uno storico della prima metà del ‘900 Ettore Pari, che sostenne la teoria della falsificazione dei fasti consolari. Siccome sono un documento epigrafico di fine repubblica, influenti famiglie plebee di età tardo repubblicana, avrebbero corrotto qualcuno per falsificare i fasti consolari e fabbricarsi così antenati illustri di rango consolare, inserendo il loro nome plebeo nei fasti consolari, negli anni più antichi, perché sarebbe stato molto più difficile provarne la manomissione. Altra grande teoria è stata elaborata negli anni sessanta, da Serrano che sostenne che non era necessario pensare a una falsificazione, sostenne che era possibile credere alla presenza di nomi plebei nei primissimi anni della repubblica come consoli, perché la costituzione monarchica viveva di un equilibrio sostanziale tra componente patrizia e plebea, che rendeva non inverosimile pensare che tale nuova repubblica fosse coronata unitariamente da patrizi e plebei che nei primissimi anni della repubblica si affiancarono come consoli. Mancando il garante dei rapporti di patronato però, tale equilibrio durò pochissimo tempo e nel giro di pochi anni i patrizi presero il sopravvento, perché messi nella condizione di ricoprire tutti i ruoli chiave dello stato durante il corso della storia, infatti l’unico freno che bloccava il loro potere era il rapporto di patronato. È così che la loro relazione salta, i patrizi prendono il sopravvento e nelle coppie consolari non troviamo più plebei. Nella vita politica repubblicana appartenere a una famiglia che non ha mai dato uomini alla politica, essere il primo della famiglia ad intraprendere una carriera politica, e la cosa più negativa che possa succedere; è importante avere antenati che abbiano partecipato in politica arrivando fino alla carica più ambita. Essere omo novus è fortemente penalizzante, perché avere antenati consoli era come un sigillo di garanzia, mentre per chi tentava di entrare in politica per la prima volta era molto difficile ottenere la fiducia. Essere di una famiglia che ha già dato prova di se con illustri uomini del passato, è una garanzia che sarai anche tu un bravo console come il tuo avo. Alla fine dell’età repubblicana, non è più così, ed esisteranno altri modi per garantirsi il favore del pubblico, ad esempio l’uso dell’arte oratoria come avvocato d’accusa che mette sotto inchiesta i politici corrotti, si fa quindi una faccia da moralizzatore e poi riesce a fare carriera politica avendo una particolare leva sui comizi, c’è quindi un nuovo modo per fare carriera che sterilizza l’essere un uomo nuovo. Re è scelto da una delibera del senato e otteneva pieni poteri solo dopo essere stato presentato e acclamato dal popolo raccolto nel comizio curiato, prima della scelta del re si ha l’interregno, tutto questo in età monarchica. In età repubblicana, al potere ci sono due consoli scelti con una votazione dell’assemblea popolare più rappresentativa di tutte, cioè il comizio centuriato: assemblea popolare, di tutto il popolo riunito per centurie su base censitaria, timocratica, introdotta da Servio Tullio con l’intenzione di reclutare l’esercito, per non penalizzare le famiglie meno abbienti togliendo loro troppa forza lavoro. L’equilibrio sociale dell’età monarchica era dovuto a rapporti di patronato regolati da un garante; venuto meno il re, in pochi anni, dopo l’istaurazione della repubblica, i patrizi poterono prendersi il potere. Il comizio centuriato ha suddiviso la popolazione in 193 centurie con una scansione timocratica volta a porre l’accento sulle classi nobiliari. La descrizione del comizio centuriato disegnato alla fine dell’età monarchica aveva lo scopo di far partecipare in maniera il vigorosa alla formazione dell’esercito, chi può di più perché ricco dal punto di vista immobiliare: la parte dei ricchissimi e quella dei più ricchi tra i ricchi, insieme formavano già la maggioranza dell’esercito; se la usiamo per capire chi deve andare a capo dello stato, osserviamo che allo stesso modo il comizio si trasforma in un’assemblea di votazione, in cui se si mettono d’accordo le 18 centurie di cavalieri con i ricchissimi della prima classe, avranno i voti sufficienti per far eleggere console chi vogliono. Capiamo come ben presto il precedente assetto di parità monarchico, si distrugge in favore di uno strapotere dei patrizi sui plebei. In età repubblicana le leggi le voteranno i comizi centuriati: i più ricchi patrizi dal punto di vista immobiliare, hanno voti sufficienti in assemblea per far eleggere chi vogliono, cioè due consoli patrizi, e allo stesso tempo hanno anche voti sufficienti ad approvare le proposte di legge che vogliono. Questo portò a una rottura degli equilibri sociali monarchici e all’assestamento di uno strapotere politico patrizio in danno dei plebei, tuto ciò doveva dar vita nel V e in larga parte nel IV secolo a.C. ad un feroce scontro politico riconosciuto con il nome di scontro patrizio-plebeo. Plebe si compone di vari stati, sia poveri che ricchi dal punto di vista mobiliare, arricchitosi grazie all’arrivo dell’economia di mercato e di commerci, diversa dalla ricchezza gentilizia fatta di terre e terreni agricoli, dalla quale i plebei sono fin dai tempi dei pagi, esclusi. Ai plebei ricchi va stretta la configurazione dello stato che si è venuta ad assumere con la repubblica, perché avendo scelto come assemblea rappresentativa il comizio centuriato, che considera la ricchezza immobiliare, il plebeo ricco dal punto di vista mobiliare sta comunque in basso e il suo peso politico è nullo. Siamo in una situazione in cui i plebei ricchi rivendicano di contare qualcosa politicamente, cioè rivendicano l’equiparazione dei diritti politici con i patrizi; significa che i plebei ricchi vogliono contare di più nel comizio centuriato e pertanto richiedono l’assegnazione di terre, diranno che le nuove terre che vengono conquistate dovrebbero essere affidate a loro; i plebei poveri vorrebbero anch’essi delle terre ma hanno esigenze molti più limitate, non vogliono gradi terre per contare di più dentro il comizio, ma vorrebbero solo un piccolo podere che gli permetta di coltivare e produrre ciò che è necessario a sanare i bisogni delle loro famiglie, per avere garantita la loro sopravvivenza, perché la terra è pane e libertà. Se il plebeo povero non ha almeno un piccolo appezzamento di terra per soddisfare i bisogni propri, per campare deve fare debiti con i patrizi, che possiedono tutte le riserve alimentari necessarie. Il rischio tangibile per i plebei poveri è quello di un indebitamento nei confronti dei patrizi che li porti a perdere la loro libertà. A Roma antica esiste un meccanismo di diritto civile che porta il debitore insolvente (che non può fronteggiare i debiti), prima in catene in una condizione para-servile e se il debito continua a non essere pagato, il debitore potrà essere venduto come schiavo fuori da Roma. Per questo per loro la terra è pane e libertà. C’è un terzo piano di lotta politica, comune a tutta la plebe, cioè la lotta per un futuro migliore. Le popolazioni possono arrivare a vivere stati d’assoggettamento terribili, ma quello che rappresenta veramente un punto di rottura e origina le rivoluzioni non è il dramma del presente, ma l’assenza di speranza nel futuro. Antichissimo mos sancisce il divieto di connubio fra patrizi e plebei, un patrizio e una plebea o viceversa, non potranno mai unirsi in giuste nozze, iustae nuptiae. Il mondo del diritto non riconoscerà mai validità giuridica a un matrimonio misto patrizio-plebeo, e questo toglie ogni speranza a chi è plebeo, di poter far nascere un figlio non plebeo. Il divieto di connubium tra patrizi e plebei è un meccanismo che evidentemente tende a garantire il perpetuarsi della rigida separazione tra le due classi sociali. Questo mos è stato avallato dalle leggi regie in monarchia, perché tutto l’ordinamento sociale monarchico si basava sulla separazione sociale dei compiti e sull’equilibrio di due poli, se questi si mischiano la struttura costituzionale decade; nell’età repubblicana non c’è la stessa esigenza, ma quella per cui si continua a far valere tale separazione è per mera volontà politica patrizia, questa classe non vuole l’intrusione dei plebei, vogliono mantenere i ceti separati e fanno valere il mos. Il mos è ius che va rispettato. Questo mos toglie speranza ai plebei di una vita migliore per i lor figli. Si ha un inizio dell’età repubblicana nel quale i patrizi prendono il predominio nei confronti dei plebei, i quali hanno le loro istanze politiche, ma per portarle avanti necessitano degli strumenti di pressione politica sulla controparte, delle leve politiche. I plebei vennero affinando l’idea della secessione, che si sviluppa per la prima volta nel 494 a.c. La plebe fuoriesce da Roma e si riunisce in assemblea su monte sacro per la plebe cioè sull’Aventino. Fuoriuscita da Roma, la Plebe inizia a creare un proprio ordinamento e lo disegna per analogia a quello cittadino: qui non valgono più le regole costituzionali di Roma. È fatale copiare gli aspetti gentilizi. La nuova assemblea viene detta: concilio della plebe, concilium plebis. Necessitano di rappresentanti politici che sono scelti attraverso una votazione, anche qui si eleggono due rappresentanti con validità annuale detti tribuni della plebe, tribuni plebis. Tutto ciò che è deciso dentro Roma ha il crisma della legalità, fa parte della nuova costituzione repubblicana, ciò che è deciso sull’Aventino, agli occhi dei patrizi non avrà valore costituzionale, e le decisioni avranno senso solo se tutti i plebei rimarranno fermi nelle loro convinzioni. I tribuni avranno valore nella misura in cui il resto dell’assemblea continui a sostenerli. Non hanno uno strumento legale per vincolare le decisioni di quel giorno, essendo che sono fuori dalla costituzione, decidono di usare uno strumento religioso, cioè si impegnano con un solenne giuramento religioso, a tenere fede a quello che è stato deciso in assemblea. La decisione del concilio della plebe è sottoposta a votazione dello stesso, quindi si vota l’istituzione dell’assemblea plebea, l’istituzione di due rappresentanti in carica per un anno e si vota anche la loro inviolabilità, difendendoli da qualsiasi attacco o violenza; per essere sicuri di tenere fede a tali deliberazioni, tutti sono invitai a confermare questi impegni mediante un giuramento religioso: il sacramentuum. Tale diventa l’escamotage religioso per garantire l’osservanza del deliberato plebeo, perché se qualcuno non tiene fede a ciò che è appena stato votato dalla maggioranza viola il sacramentuum, violando le divinità sacramentali e diventando così un homo sacer, che può essere ucciso al fine di compiere un sacrificio. In maniera totalmente ad di fuori della costituzione e delle regole della repubblica, i plebei riuniti in tale assemblea iniziano a darsi le loro regole, che sono vincolanti così come quelle dei patrizi. Quelle dei patrizi sono vincolanti perché costituzionali, quelle della plebe vincolanti dal punto di vista religioso, sono regole rivoluzionarie, cambia la natura del vincolo ma non il risultato. I mores devono essere rispettati perché questo dice la costituzione e l’odierno deliberato deve essere rispettato al fine di non divenire homo sacer. Tale deliberato della prima secessione plebea si ricorda come prima legge sacrata, cioè prima legge la cui validità riposa su un sacramentuum, dipende da un giuramento religioso; parliamo di leggi regie ma non possiamo fare riferimento all’odierno significato di legge, che invece nasce proprio nelle leggi sacrate, cioè fuori Roma, nasce nell’esperienza rivoluzionaria plebea, e la vincolabilità di tali delibere è affidata a meccanismi di sanzione religiosa e non giuridica. La prima secessione è destinata a finire con un evento: un anziano e saggio patrizio Agrippa, sarebbe uscito da Roma per arrampicarsi sul monte sacro dei plebei, raggiungendo il concilio della plebe, per raccontare la storia delle mani che entrarono in lite con la testa, su chi fosse più importante nel corpo; le mani sostenevano di essere la parte più importante perché preposte al lavoro e alle azioni della vita quotidiana, ma la testa voleva prevalere perché centro degli ordini e delle idee che regolamentavano la vita; in tale contesto di contrasto le mani decisero di entrare in sciopero e non fare più nulla, così facendo non avrebbero portato cibo alla bocca provocando la morte della testa e consequenzialmente di tutto il corpo, mani comprese. Le mani sono i plebei e la testa i patrizi, non possono fare gli uni a meno degli altri: i primi perché li necessitano per il lavoro e per l’esercito che sarebbe dimezzato se composto da soli patrizi, mentre affinché Roma diventi grande deve essere ben nutrita e quindi aiutata da tutti i suoi componenti; allo stesso modo i plebei non possono stare fuori Roma perché qui non sono più protetti dalle mura, si deve trovare un compromesso. I plebei pongono fine alla prima secessione tornando dentro Roma, ma portandosi dietro il fatto che non sono più una plebe abbandonata a se stessa ma una plebe con una propria consapevolezza e assemblea, che ha i propri rappresentanti intoccabili. Quando rientrano in città ed espongono la loro nuova organizzazione, i patrizi dicono le che regole di Roma vanno decise dentro Roma, seguendo le regole della costituzione, e tutto ciò che è stato deciso fuori vale zero ed è privo di significato nella repubblica. I plebei avvertono i patrizi che in caso attacchino i loro tribuni, verranno investiti dalla folla di plebei che devono garantire l’inviolabilità del loro rappresentante. Passano due anni e nel 492 a.c. la tensione politica è di nuovo alle stelle, si realizza la seconda secessione plebea e in occasione di questa, viene votata la seconda legge sacrata, con una metodologia identica alla prima. L’oggetto di tale è l’inviolabilità del concilio della plebe: nessuno potrà disturbare, o disperdere la plebe durante le sue assemblee, se qualcuno dovesse farlo, o sarà in grado di fornire garanti per il pagamento di una multa oppure pagherà immediatamente con la vita. La plebe fuori Roma riunita in assemblea vota in maggioranza questa legge e la rende sacrata con un giuramento. Rientrata a Roma la plebe dice ai patrizi che nessuno può disturbare il concilio, i patrizi continuano a non voler riconoscere tale istituzione, sostenendo che non ha valore costituzionale perché è stata fatta fuori da Roma. I plebei ancora una volta mettono in guardia i patrizi, dicendo che se qualcuno tenterà di disperdere l’assemblea della plebe perché illegittima, cioè non riconosciuta dalla costituzione repubblicana, il patrizio pagherà con la morte, perché chi si sottrae al sacramentuum diventa homo sacer, verrà quindi rapito e sacrificato fuori dalla città. È un forte meccanismo di scontro politico che porta la plebe a fuoriuscire da Roma ed agire in maniera rivoluzionaria. Siccome non può far emergere il proprio potere dentro la costituzione romana, i plebei lo portano fuori da Roma, vanno in secessione e costituiscono un ordinamento rivoluzionario; ciò che è importante è che l’effetto di queste regole non è vincolato dalla legalità, ma vincolanti sotto il profilo religioso. A questo si aggiunge un grave vulnus, ferita, una mancanza, all’interno della costituzione proto- repubblicana (dei primi anni repubblicani), rappresentata dalla fonte giuridica consuetudinaria: al centro del mondo giuridico romano da sempre ci sono gli antichi usi e costumi cioè antiche tradizioni gentilizie, dei patrizi, esse sono affidate alla tradizione orale, e questo genera problemi di certezza del diritto. Nasce un motivo di lite giuridica tra patrizi e plebei. Gli antichi mores non sono scritti, in caso di dubbio l’interpretazione sarebbe in mano ai patrizi e i plebei non avrebbero mai ragione. Nasce quindi una nuova istanza politica plebea che è quella di maggiore certezza del diritto, i plebei accettano che le tradizioni dei patrizi costituissero il diritto ma chiedono di mettere per iscritto tali mores. Bisogna esplicitare le regole tratte dalle antiche costumanze patrizie, mettendole per iscritto. Secondo la tradizione una prima proposta di redazione scritta dei mores sarebbe stata fatta nel 462 a.c. da Gaio Terentilio Arsa, e sempre secondo la tradizione nel 454 a.c. sarebbe stata spedita un’ambasceria per studiare le leggi soloniche. Ci sono diverse opinioni a riguardo, comunque sia andata quello che sappiamo con certezza è che nel 451-450 a.c. a capo dello stato non ci sono due consoli ma bensì una magistratura straordinaria che va sotto il nome di primo decemvirato legislativo, cioè un collegio di dieci uomini con il compito di scrivere le leggi. Lo scontro politico patrizio plebeo induce i patrizi a rinunciare per quegli anni all’assetto costituzionale ordinario della diarchia perfetta, nominando una magistratura straordinaria, il decimvirato di uomini patrizi in carica un anno, con il compito di redigere una versione scritta dei principali mores gentilizi. Questo spiega i dieci nominativi nei fasti consolari per tali anni. Allo scadere della carica del decemvirato vengono pubblicate dieci tavole di mores, nel farlo però i decemviri dichiarano anche che il lavoro non è finito e chiedono una proroga di poteri. In realtà non si procedette con questa, ma con la nomina di un nuovo collegio decemvirale con la peculiarità che in questo secondo collegio vennero ricompresi anche membri dell’ordine plebeo, in numero minore rispetto ai patrizi, ma c’è la grande novità della non esclusività patrizia. Lo sappiamo dai fasti consolari o fasti capitolini, dove possiamo leggere i nomi dei componenti che hanno retto il governo ogni anno. Si evidenzia la presenza plebea che comunque non aveva la maggioranza nel 450 a.C. Queste due grandi conquiste: la stesura dei mores gentilizi e l’inclusione dei plebei nel secondo decemvirato, ci dicono che nella lotta politica tra patrizi e plebei nella seconda parte del quinto secolo a.C., il peso politico dei plebei sta evidentemente crescendo. Prende avvio una stagione di compromessi politici, nella quale le istanze plebee non possono essere ignorate dai patrizi, i quali cercano di concedere loro il meno possibile, ma devono cedere su alcuni punti, per evitare uno scontro radicale che porterebbe alla distruzione di entrambe le parti. Alla fine dell’anno di carica del secondo decemvirato si producono altre due tavole di mores. Le prime dieci tavole, frutto del lavoro del primo decemvirato, seguono una ripartizione per materia: le prime tre esprimo consuetudini processuali, la quarta riporta regole sui rapporti di famiglia, la quinta codifica antichi mores in materia di eredità, tutela e cura, la sesta tavola si occupa di contratti e negozi giuridici, la settima di antiche costumanze sulla proprietà immobiliare, la ottava e la nona tavola si occupano di antichi costumi di diritto criminale-penale romano, la decima si occupa di costumi suntuari e funerari cioè antiche costumanze sul culto degli avi e in materia di regole funerarie. Le ultime due tavole non rispecchiano una rigida ripartizione di materie, bensì costituiscono un’appendice di norme, cioè non trattano una materia determinata ma si ritrovano norme sparse di varie materie, rimaste fuori dal primo vaglio del primo decemvirato. È quindi una materia mista. Alla fine del secondo decemvirato, gli uomini dichiarano che il lavoro non è finito e chiedono di poter restare in carica; a questo punto ci sarebbe stata una violenta reazione politica per cui si sarebbe dato definitivamente l’epilogo a questa stagione decemvirale e a partire dal 449 (anno successivo) fino al 377, si sarebbe ripristinata a capo dello stato la normale diarchia consolare patrizia, come si evince dai fasti consolari, che si alterna con tribuni militari con le stesse prerogative dei consoli, in numero variabile da tre a otto. Fino al 300 quando si iniziano a trovare coppie consolari miste patrizie-plebee. Secondo gli storici antichi la fine del secondo decemvirato sarebbe da ascriversi a una violenta reazione politica plebea nel momento in cui furono pubblicate le ultime due tavole della legge. I plebei avrebbero nutrito enormi aspettative circa gli esiti del lavoro di questa commissione, data la presenza anche dei loro uomini. Rimasero delusi dopo aver scoperto all’interno delle ultime due tavole, la riproposizione di un antichissimo mos, a loro indigesto, che non era stato contemplato nella tavola quarta, cioè il divieto di connubium con i patrizi. Quando era stata pubblicata la quarta tavola con i rapporti di famiglia in cui non figurava tale mos, i plebei avevano sperato, ma poi rimasero scontenti dalla sua apparizione nell’epilogo finale, tanto da ribattezzare le ultime due tavole come tabule inique, cioè tavole ingiuste e sarebbero stati i plebei ad insorgere e cacciare via i
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